– di Vincenzo D’Anna* –
“Dei Sepolcri” è il titolo del famoso carme di Ugo Foscolo, quello studiato in ogni tempo ed in ogni scuola, e che ci ritorna alla mente con il famoso verso “Sol chi non lascia eredità d’affetti poco sollievo ha dall’urna”. Una mirabile composizione dai cui versi sorgono, limpidi e potenti, sentimenti che segnano un’intera esistenza. In quell’opera il poeta di Zante ci incita a riflettere sulla caducità della vita umana e sull’opportunità che tra i vivi e i morti permanga un vincolo attraverso il sacello, quella sacra pietra chiamata “sepolcro”. Il celebre carme si apre con una domanda, profonda ed ineluttabile: “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate dal pianto è forse il sonno della morte men duro?”. E poi, ancora, Foscolo afferma che la tomba rende possibile, anche dopo il decesso, quella corresponsione di “amorosi sensi” tra coloro che restano e quelli che sono trapassati. Insomma, la nuda pietra oppure la terra consacrata, non rappresentano solo un simbolo, un adempimento, un presidio igienico necessario, un gesto caritatevole, magari espressione della “pietas”, ma anche un strumento prezioso, capace di rendere imperituro e pulsante il legame d’affetto con coloro che abbiamo amato in vita e che ci hanno amati da vivi. Vero è che tale pratica ebbe inizio e si diffuse con l’editto napoleonico di Saint Cloud (1804) attraverso il quale si stabilì che i cimiteri fossero posizionati al di fuori delle mura cittadine, per motivi sanitari, e che le tombe fossero improntate alla semplicità e soprattutto all’uguaglianza, secondo i canoni rivoluzionari del periodo. Nelle epoche precedenti, infatti, solo ai più facoltosi, ai nobili ed al clero venivano destinati monumenti funerari, quasi sempre ricavati all’interno delle chiese. Il resto della popolazione veniva inumato in fosse comuni oppure sepolto alla men peggio. Quell’editto fece dunque sorgere, in un certo modo, la diffusa pratica delle singole sepolture, dell’uso dei camposanti intesi come luoghi preposti alla cura del “caro estinto”. In pratica iniziò a diffondersi in quegli anni, come per le categorie più abbienti e blasonate, il cosiddetto culto dei sepolcri. Non si trattò, si badi bene, solo di una norma socialmente livellatrice, come magari era anche nelle intenzioni di colui che l’aveva concepita, ma anche di una vera e propria occasione per poter rinforzare quella sorta di legame ultraterreno, quella congiunzione immateriale con l’anima di chi ci aveva preceduti nell’aldilà. Non volendo tuttavia scomodare ulteriormente gli interrogativi posti dal Foscolo, occorre dire che il sepolcro si erge come simbolo di quel legame che resiste oltre la morte, costituendo una fonte ove ci si abbevera al culto ed al ricordo di chi non c’è più. Un segno laico (oltre che religioso) di civiltà, di rispetto e di decoro per chi ci resterà sempre caro. È, questa, una pratica che porta sollievo e qualche utilità ai vivi, andando oltre il rimpianto ed il dolore della perdita? La risposta è certamente affermativa per i credenti, per tutti quelli che, come i cristiani, concepiscono la vita terrena come un passaggio breve e circoscritto per la meta dell’eternità nella beatitudine del Creatore. Ma lo è anche per l’ateo che, attraverso il sepolcro, immortala il ricordo di chi gli è stato caro in vita, per le future generazioni. In fondo non c’è vita tanto banale ed anonima che non meriti di essere commemorata e rinnovata. Parliamoci chiaro: sentimenti, memoria storica, valori laici e religiosi, non si potrebbero compiutamente realizzare senza l’intermediazione della tomba, del luogo ove giace quel corpo che, prima di spirare, ha condiviso tante storie di vita con quanti sono rimasti e, attraverso loro, pure con quelli che “arriveranno”. C’è semmai ancora da interrogarsi se questa istituzione ottocentesca sia ancora apportatrice di emozioni e di ricordi o non sia ormai ritenuta un’usanza desueta, una delle tante cose che la civiltà tecnologica, agnostica e deprivata della cultura riflessiva ed umanistica, possa ritenere inutile e sorpassata. Ad accompagnare questo intento, tendente a liquidare e banalizzare il pregresso, sovviene l’uso della cremazione e l’ormai diffusa pratica della dispersione delle ceneri. Per dirla tutta: siamo arrivati alla scomparsa delle spoglie e sopratutto di quel punto di “amoroso riferimento” che è rappresentato, appunto, dal sepolcro. Le esigenze di spazio e la pratica celere e definitiva della cremazione, possono rende inutile la tomba agli occhi di un corpo sociale che idolatra la velocità e la superficialità. Un corpo avventato, che in poco o niente crede a meno che non abbia il suggello della scienza. Un corpo che a tutto attribuisce un prezzo ed a niente un valore. Molte le tombe abbandonate nel Nord del Belpaese, sempre più pragmatico e sbrigativo, scarsa l’affluenza ai cimiteri. Questo ci dicono le cronache di questi giorni, che parlano perlopiù di esodi biblici a sfondo vacanziero. Io non so quanto sollievo si tragga ancora dall’urna lacrimata. So solo che mi è caro rimpiangere i miei cari, onorarli da vivo e poterlo essere da morto.
*già parlamentare