di Mariantonietta Losanno
Il professor Michele Apicella cambia casa. Fa la conoscenza dei suoi vicini: Sirio Siri, un anziano goliardo e Massimiliano e Aurora, una giovane coppia alle prese con i problemi di tutti i giorni. Si presenta poi al Preside della Marilyn Monroe, atipico istituito dove gli allievi dispongono di bar, palestra specializzata, posta policar, juke-box, slot-machine, flipper. Tra i suoi colleghi (tra cui c’è un professore di storia che si impegna a spiegare gli anni Sessanta al suono di “Il cielo in una stanza”) c’è Bianca, insegnante di francese, che subito lo attrae e lo affascina. Un mattino però, Michele, consumando la colazione in terrazza, vede nell’appartamento di fronte la polizia intenta a rilevare impronte accanto al corpo senza vita di Aurora adagiato sul letto. Poi sarà la volta di Ignazio e Maria (un’altra coppia che Michele ha cercato a tutti i costi di tenere unita): saranno trovati uccisi.
Un mondo a misura di Nanni Moretti: lo spettatore può identificare i suoi occhi con quelli del professore Apicella, condividendone paure e dubbi, debolezze e sincerità, rabbie e insofferenze. Infatti, si fa fatica a ritenerlo colpevole. Michele aveva bisogno di un modello di armonia e felicità in cui potersi rispecchiare, la sua follia scaturisce dal suo essersi smarrito e dalla sua incapacità di riconoscersi nel suo tessuto sociale. Michele – e lo spettatore con lui – osserva, controlla, scruta e spia (come ne “La finestra sul cortile”), ma non sopporta essere seguito e sorvegliato. Vuole che tutti gli amici vivano d’amore e d’accordo, davvero come in un sogno.
“Bianca” è un’opera allucinatoria, contraddistinta da una disperata ironia. Al suo quarto lungometraggio Nanni Moretti si trova di fronte ad un’idea di cinema che poi la critica gli “incollerà” addosso: in “Bianca” appaiono armonizzati progetto e messa in scena, immagini e strategia, logica e spettacolo, mano d’autore e passaggi di genere. Michele Apicella – alter-ego di Nanni Moretti – matura, ed è lo stesso regista ad interpretarlo e a plasmarlo, a suggerirgli un punto di vista attraverso cui guardare il mondo. Dietro la sua facciata comica si nasconde tutta la sua tragicità: Michele si sente estraneo a tutti i suoi colleghi e a tutti i suoi amici, ma sente comunque il bisogno di interagire con “le vite degli altri”, appropriandosene e addossandosi il compito di infondere loro la felicità. “Bianca” è una pellicola che parla di solitudine, di incapacità a relazionarsi con gli altri: Michele viene pervaso dalla follia perché non riesce ad ignorare quello che lo circonda “chiudendo un occhio”. Il suo sguardo è fin troppo attento a registrare ogni singolo dettaglio. Sente il bisogno di “difendersi da tutto quel dolore”, liberandosene: “Bianca” è un omaggio al cinema e all’atto della visione. É un film sulle paure, un’opera angosciante per certi versi, ma che non rinuncia ad una dose di “tenerezza”. Narrando i deliri di Apicella, emerge la sua ossessione nel voler cercare un ordine e una purezza: così come tutto è perfetto in matematica, così deve esserlo anche nei rapporti umani. Tutti devono volersi bene, a qualsiasi età. Un desiderio piuttosto infantile che gli impedirà anche di accettare l’amore che (forse) lo avrebbe salvato dalla follia. La sua visione da perfezionista è talmente forte da condizione ed inquinare la nozione stessa di felicità.
“Bianca” è una continua esasperazione: dell’autoreferenzialità di Nanni Moretti, del suo compiacimento egocentrico (che Dino Risi ha sintetizzato nella sua brillante battuta “Nanni, spostati, che devo vedere il film), delle sua bassissima tolleranza nei confronti di tutto ciò che si allontana dai suoi ideali. Quello che il film rivela immediatamente è il processo di scrittura che gli sta alle spalle; non più le immagini felicemente inventate di “Ecce Bombo”, ma la testimonianza di una sceneggiatura di ferro che lo alimenta in ogni suo fotogramma. Uno dei risultati più alti nella filmografia di Nanni Moretti.