di Mariantonietta Losanno
Sembra difficile riuscire a trovare un appiglio che possa aiutare a reintegrarsi nella propria identità. Le parole di Sarah Kane aggrediscono, restituendo una sensazione di stanchezza e disorientamento. La violenza è tale da riuscire a distruggere l’idea che possediamo di noi stessi; è come se si prendesse parte ad un conflitto – ad armi impari – e ci si scontrasse con tutte le proprie angosce, anche quelle più recondite. Un conflitto che (paradossalmente) può essere affrontato – ma non vinto – accettando il Dolore, provando ad assumerne il controllo. Sentendo il “male”, non tagliandolo fuori; bramandolo, riempiendosene, tremando, rabbrividendo. Cogliendo ogni sussurro, silenzio, sfumatura, ombra. Provando persino sollievo, dopo essere stati torturati. Questa, forse, è l’unica strada (salvezza?) per riappropriarsi non solo di se stessi, ma di una forma diversa e esaltante di conoscenza. Alterata, superiore, profonda. Ed è in questa follia che l’anima si potenzia. Abitando il “vuoto”, assorbendo ogni possibile contraddizione, accettando – persino – una follia “sacra” che (ci) possa rendere consapevoli.
Il regista Pierpaolo Sepe si serve di una gabbia per trasmettere – immediatamente – il senso di claustrofobia e costrizione. Una scelta coerente (forse anche comoda?) che stabilisce un dentro e un fuori. Una demarcazione che impone un limite ma offre anche un’opportunità di scelta. Fuggire o restare? Dimenticare o sentire la verità, ricordandola e registrandola? Lo spettacolo, andato in scena al Teatro India di Roma (2016) e, ancora prima, in occasione del Campania Teatro Festival (2015), vede quattro personaggi in scena, identificati da una lettera al posto del nome. Una luce rossa illumina il palco, gli attori sono immobili, la musica accentua la paura. Sarah Kane, autrice britannica di cinque testi teatrali scomparsa nel 1999, si accanisce, in Crave (tradotto in italiano con il titolo Febbre), disperandosi della (sua) disperazione. Sono parole da cui ci si vorrebbe difendere e che impediscono – durante il combattimento – di uscire illesi; così vere e contrarie ad ogni forma di censura, così sofferte e, a volte, persino ironiche. Interpretandole, si avverte una doppia necessità: quella di nascondersi, di restare ancorati e protetti dal confine (cioè dalla gabbia), o guardare oltre, cercando risposte. Superare una certa soglia significa anche approfondire una ricerca ossessiva, in un continuo ribaltamento di prospettive, che si rilevano – in alcuni casi – un’arma a doppio taglio.
Abitare il vuoto non implica la necessità di riempirlo. Perché, di per sé, è già colmo – o sovraccarico – di solitudine, trascuratezza, sofferenza. Il Dolore è un’ombra («Pain is a shadow. / The shadow of my lie», sono le parole originali della drammaturga), da cui non si può provare a fuggire mentendo. Bisogna attraversare, allora, il tormento, il disamore, la brutalità. Le parole dei quattro personaggi (A, C, M, B) si alternano in modo frenetico e in alcuni momenti più lento, dando agli spettatori la possibilità di prendere parte a questa ricerca identitaria, a loro volta riconoscendosi in una dualità. Talvolta vittime, talvolta carnefici.