AGNELLI, IL SOGNO INFRANTO

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    –   di Vincenzo D’Anna*   –                                                                      

 Durante i moti operai dell’autunno caldo (il primo tra questi fu nel 1969), su di uno striscione della Fiom, il sindacato rosso dei metalmeccanici della Cgil, era scritto: “Se mancherà la carne mangeremo Agnelli”. Erano quelli i tempi della contestazione, fomentata dal Pci, al sistema capitalistico industriale del quale la Fiat rappresentava la punta di diamante. Le catene di montaggio delle automobili restarono ferme ad oltranza per l’acerrima lotta sindacale ed il paese quasi in bancarotta. Era, in fondo, quella l’epoca del sindacalismo d’assalto, quando questi fungeva, spesso da cinghia di trasmissione dei partiti di opposizione ai governi del cosiddetto pentapartito (democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali). Una contestazione, quella operaia, che in quegli anni si saldò con quella studentesca che nelle università, e poi nelle scuole in generale, si incaricava di sovvertire il vecchio ordine sociale ed i valori che ne costituivano l’essenza. Purtroppo la contestazione radicale al sistema socio economico ed alle istituzioni politiche sfociò, negli anni successivi, nella costituzione di gruppi eversivi, associazioni politiche di stampo marxista-leninista che si dichiararono extraparlamentari, ossia alternative ai movimenti politici del tempo ed allo stesso sistema democratico. Alcuni di questi gruppi passarono alla clandestinità ed alla lotta armata, costituendo le Brigate Rosse, Potere Operaio, Lotta Continua: bande estremiste che insanguinarono il Belpaese con omicidi e rapimenti di personalità del mondo politico, economico, dell’informazione e della cultura, dei sindacati, della magistratura e delle forze dell’ordine. Fecero da specchio a tali formazioni eversive quelle che vi si opponevano con i medesimi mezzi militando agli antipodi politici, ossia la destra eversiva dei Nar ed Ordine Nuovo. In questo clima di violenza la Fiat fu sia il bersaglio e sia la sorgente dell’opposizione, del contrasto di matrice operaia e sindacale, dell’eversione violenta. Insomma: i lavoratori stessi sconfessavano le tesi degli extraparlamentari di parlare ed agire in nome della classe operaia. Fu proprio dallo stabilimento della famiglia Agnelli che nacque e si affermò, nei successivi anni ‘80 del secolo scorso, la reazione forte della cosiddetta “maggioranza silenziosa” agli scioperi ed alla violenza dei gruppi eversivi, già perlopiù sgominati dalla forza e dalla saldezza unitaria dello Stato democratico, con la protesta e lo sciopero dei quadri amministrativi della fabbrica torinese. I quarantamila che si unirono in corteo a Torino segnarono un’inversione di tendenza epocale sul piano politico e sindacale: la protesta di quel ceto borghese principalmente avversato e colpito dal terrorismo. Insomma quelle degli Agnelli non furono solo fabbriche che davano lavoro a centinaia di migliaia di operai e di quadri dirigenti, che con le vendite sostenevano la disastrata economia nazionale di quei tempi. La Fiat e gli Agnelli rappresentavano, con gli stabilimenti sparsi nel mondo, un biglietto da visita di tutto rispetto della nazione, espressione della migliore imprenditoria italiana e sostegno, con l’indotto degli accessori, a tante piccole e medie aziende italiane. Ricchezza che provocava diffusione della stessa in altre mani e lavoro per molti. A capo di questo impero era collocato, dal dopoguerra in poi, Giovanni Agnelli, per tutti l’Avvocato, circondato dai fratelli e dalle sorelle, a vario titolo allocati nella holding familiare, oppure gestori di banche e di assicurazioni, di case editrici e di giornali. Uomo brillante oltre che abile industriale, Agnelli era venerato e temuto, ossequiato e combattuto a seconda degli interlocutori, ma portava comunque con sé un’aura nobile fatta di prestigio e di rispetto. Conosciuto ed apprezzato nel jet set internazionale, l’Avvocato frequentava, con disinvoltura, sia potenti del mondo e luoghi del potere, sia quelli mondani con lo stile, la nomea e l’autorevolezza che lo precedevano. Presidente, oltre che proprietario della Juventus, la squadra di calcio più blasonata e seguita d’Italia, era molto considerato anche negli ambienti popolari dei tifosi di calcio che nei salotti sportivi. Nominato Senatore a vita, per chiara fama, avrebbe certo potuto scalare qualsiasi sondaggio di opinione incontrando il favore e la simpatia degli italiani. Fu quella aura di successo, di potenza, di stile e di mondanità, di rispetto indiscusso, che lo immunizzò, forse lo protesse, dall’invidia perniciosa, dai malevoli interrogativi degli arrabbiati sociali, dalle indagini sospette sulla sua immensa ricchezza, da impropri interventi della magistratura sulle sue attività, che invece avvilivano gli altri capitani d’industria. Tuttavia il tempo avrebbe svelato che l’Avvocato Agnelli era popolare ed amato anche perché italiano anche nei difetti e che non aveva predilezione a pagare le tasse. Insomma emblema del prototipo di italiano. Prima la figlia Margherita, contestando la quota di eredità ricevuta, denunciò la sparizione, dall’asse ereditario, di depositi esteri per oltre un miliardo di euro. Ma nessuno si mosse ed indagò, nessun giornale vi fece approfondimenti, nessun reportage televisivo fu speso a tal proposito. Fosse stato un figlio di Berlusconi a denunciare la stessa cosa, sarebbero sbarcati i “marines” della Guardia di Finanza con un centinaio di magistrati al seguito!! Solo in queste ore è trapelata la notizia di cronaca giudiziaria di un’ipotesi di evasione fiscale da parte della vedova Marella Caracciolo, falsamente residente in Svizzera per evitare di versare circa ottanta milioni di euro all’erario. Si infrange così il sogno di un Italiano che era ritenuto perfetto ed ammirevole. Tuttavia se ne alimenta un altro, forse ancor più duraturo e popolare, quello che Giovanni Agnelli fu italiano tra gli italiani: levantino ed evasore come loro. Muore un mito e forse ne sorge, inconfessato, un altro.

*già parlamentare

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