di Mariantonietta Losanno
Sono le forme geometriche ad emergere – immediatamente – nel progetto coreografico di Anne Teresa De Keersmaeker, Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia 2015, realizzato (autonomamente, senza avvalersi di un regista) nel 1993. L’uso della geometria, con i suoi contorni definiti e limitati, si trasforma in una strategia comunicativa della realtà. Sono temi – quelli legati agli spazi – che non hanno mai cessato di “inquietare” Edmund Husserl (in particolare, nell’opera “Fenomenologia dello spazio e della geometria”), uno tra i più importanti filosofi del Novecento, fondatore della tradizione fenomenologica. Ed è possibile legare i due discorsi, dimostrando – ancora – come la danza riesca a dialogare con altre discipline, nonostante gli strumenti siano (in parte) diversi. Nelle analisi husserliane, infatti, l’obiettivo polemico è impersonato dalla celebre affermazione di Galileo Galilei secondo cui la natura è un libro “scritto in lingua matematica, i cui caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente in un labirinto oscuro”. Ed infatti, a dimostrazione di questa connessione tra danza e filosofia, sono proprio i modelli geometrici formali, l’osservazione della natura e la matematica, a presentarsi come i Maestri di Anne Teresa De Keersmaeker.
È il suono forte e deciso di un violino ad aprire “Achterland” (creazione del 1990, poi diventato progetto cinematografico successivamente), che si presenta come lo scenario ideale di un “duello”, combattuto da tre uomini e cinque donne. I due universi, quello maschile e quello femminile, non si sono sempre incontrati nei lavori precedenti della coreografa belga. In questo caso si cercano, si inseguono, ma senza mai confluire l’uno nell’altro. È tangibile il legame che unisce musica e danza, che scandisce le scene e i cambiamenti di registro. Quando, infatti, è il pianoforte a dominare, i movimenti assumono una connotazione diversa, come se si adattassero ad un ritmo più lento, ma ininterrotto. I quadrati di luce, le pedane e le sedie disposte ordinatamente sono gli strumenti di cui si serve Anne Teresa De Keersmaeker per decifrare il (suo) mondo. Quando i danzatori si trovano sulle pedane difendono quello spazio, come se consentisse loro di acquisire uno status privilegiato. Come se infondesse loro più forza. Quando, invece, si muovono nei quadrati di luce – la cui intensità sembra variare in base ai loro movimenti – se ne servono come riferimento: nonostante si possa uscire da quei contorni, i loro tratti non diventano mai più deboli.
La presenza dei musicisti (Rolf Hind che esegue la musica di György Ligeti, “Otto Studi per Piano”, e Irvine Arditti quella di Eugène Ysaÿe, “Tre Sonate per Violino solo”) – così come quella dei modelli geometrici – è essenziale all’interno della coreografia: non si limitano ad eseguire partiture musicali, ma entrano anche loro in “duello”, partecipando attivamente al progetto. I danzatori sembrano incarnare a pieno un rigore a tratti impenetrabile. Sono spesso i loro costumi, ad esempio, che da formali (come quando indossano dei tailleur) diventano più vivaci (con disegni, fantasie e toni più accesi) a fornire una chiave di lettura dei loro stati d’animo, consentendo allo spettatore di entrare in empatia con i loro sguardi. All’introspezione a alla sofferenza si incastrano – senza toccarsi – l’isterismo e la paura: in alcune parti i corpi si adagiano lentamente al pavimento, in altre i movimenti sono più concitati.
Sembra, poi, che i due universi – maschile e femminile – si sfiorino quando l’assolo di un uomo riprende gli stessi movimenti dell’assolo di una donna: ma basta danzare seguendo gli stessi passi, servendosi degli stessi oggetti (in questo caso, un paio di scarpe) per “incontrarsi”? Sono gli stessi anche i pensieri, le parole, le emozioni? Una cosa è certa, però. Al turbamento iniziale segue – non solo per i costumi utilizzati – un momento successivo di quiete. Le danzatrici che stringono i pugni in uno dei momenti in cui si trovano circoscritte da quegli spazi limitati (e limitanti (?), successivamente aprono le mani, come se lasciassero la presa e si abbandonassero. “Achterland” è un’opera in cui, oltre ad essere evidente il bisogno di “difendersi” mantenendo i propri spazi, sembra esserci un’attenzione verso il momento in cui ci si trova. L’hic et nunc. Come se fosse, però, un momento destinato a concludersi, che diventa sempre più breve quanto più i danzatori “parlano”, nel susseguirsi dei movimenti.
“L’universo non ha un centro, ma per abbracciarsi si fa così: ci si avvicina lentamente eppure senza motivo apparente, poi allargando le braccia, si mostra il disarmo delle ali, e infine si svanisce, insieme, nello spazio di carità tra te e l’altro”, recita una poesia di Chandra Livia Candiani. Quell’incontro tra corpi, seppure sperato, nell’opera di Anne Teresa De Keersmaeker, pare non arrivare mai. Si esalta la precisione, la formalità, per non distrarsi dalla solitudine. Però, per avere luce – la stessa emanata dai quadrati – bisogna farsi “crepa”, spezzarsi. Accettando che dei frammenti restino fuori dai contorni definiti, in un altro spazio, più libero, non di battaglia.