di Mariantonietta Losanno
Quindici minuti che “restituiscono” qualcosa che ci è stato tolto; che delineano una poetica dello spazio (tanto cara al filosofo Gaston Bachelard) in un momento in cui lo spazio nella sua funzionalità quotidiana ci era negato. Il cortometraggio diretto dal regista Massimo D’orzi e interpretato dalla danzatrice Paola Autore (affermata e riconosciuta sia in Italia che all’estero) e dal musicista Raul Gutierrez si presenta come una de-costruzione della distanza in un momento storico in cui tutto sembrava essere possibile solo stando lontani. La pandemia, infatti, entrando – prepotentemente – nelle nostre vite, è diventata prassi, quotidianità e infine storia. Le mascherine e il distanziamento sono stati, ormai, integrati nel racconto del reale e non più nell’ambientazione immaginaria o catastrofica.
L’incontro tra i due protagonisti del corto avviene su un ponte, che diventa un punto di incontro capace di adattarsi alle regole dell’isolamento. La distanza imposta viene aumentata dalle stesse caratteristiche dei due interpreti; provengono, infatti, da due paesi diversi, e le loro possibilità di interazione sono quasi interamente annullate. C’è, però, un modo per sopperire all’impossibilità di toccare e avvicinarsi agli altri. È il binomio tra musica e danza che restituisce quello che viene negato. Ci si “aggancia”, cioè, in una maniera inedita, all’esistenza dell’altro.
È lo spazio a fungere da protagonista, e il modo in cui viene occupato. I primi passi della danzatrice sembrano lenti, come se si dovesse prendere confidenza con un luogo così ampio e dispersivo, normalmente occupato da molte più persone. Eppure, quello scenario così “aperto” e disorientante diventa – paradossalmente – una sorta di rifugio. Un nascondiglio intimo e protetto, come una casa: è proprio l’abitazione domestica ad essere definita dal già citato Bachelard come il “guscio” entro cui ripararsi e ritrovarsi. Uno spazio inviolabile, che dà forma all’equilibrio tra il sé e gli altri, il privato e il pubblico, quello che è intimo e quello che è distante. Paola Autore e Raul Gutierrez si appropriano di quei luoghi, riempiendoli. Alla cautela dei primi passi di lei segue la musica di lui che accompagna i suoi movimenti: la danzatrice riempie con il corpo, il musicista con il suo strumento. E quegli spazi li abitano al punto da impadronirsene: continuano ad incontrarsi, infatti, e a fare incontrare le loro arti, senza sapere nulla l’uno dell’altro. Rimangono nascosti, ma scelgono di assecondare la loro curiosità e il loro bisogno di interagire, piuttosto che restare due estranei che nella folla si evitano, senza rendersi conto della presenza altrui. È Raul che, affascinato, rompe quella distanza, servendosi del suo strumento e iniziando a suonare come per necessità.
Il valore di questo contatto si intensifica soffermandosi a ragionare su quanto la pandemia abbia fatto proprio il mezzo digitale rendendolo il solo strumento comunicativo, portando con sé, però, una sovrabbondanza di immagini digitali che hanno de-sensibilizzato le persone e non colmato la distanza. In questo corto, invece, sembra di assistere ad un’interazione tangibile seppur astratta, ad uno scambio di parole immaginate ma mai pronunciate, forse perché non necessarie, superflue, complesse non solo per il diverso codice linguistico. Nonostante i due protagonisti si esprimano attraverso due forme artistiche differenti, i loro intenti sembrano somigliarsi, ma, al tempo stesso, non si rivelano costruiti, bensì dettati da un’improvvisazione. I movimenti di lei, morbidi e circolari, si incastrano nelle note di lui, libere e nostalgiche. Quello che si crea è un qualcosa di avvolgente, magnetico e commovente. Che esprime paura e vulnerabilità, ma che trasmette anche forza e desiderio di rivalsa. Brama di riacquistare identità, spazio, controllo dei luoghi e di se stessi. Non è funzionale al racconto la connotazione della città, perché il contatto tra i due protagonisti ha una sua poetica e una sua caratterizzazione, al di là del contesto specifico in cui si concretizza.
L’unico elemento che può interrompere quel flusso di pensieri, movimenti, note e poesie è lo squillo di un telefono, che arresta non solo la danza e la musica, ma riporta in una realtà diversa, meno sognante e più razionale. Una realtà in cui la distanza diventa di nuovo invalidante e incolmabile. Nella sua (voluta) essenzialità, il corto unisce esperienza collettiva ed esperienza privata, spazio intimo e spazio pubblico, sfuggendo alla claustrofobia delle chiamate (o videochiamate) che durante la pandemia hanno consentito di sentire, ma hanno anche impedito che si interagisse emotivamente.