“SMOG”, DI FRANCO ROSSI: MANTENERE IL SENSO DEL REALE, TRA STEREOTIPI E PRIVAZIONI DI IDENTITÀ

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di Mariantonietta Losanno

%name “SMOG”, DI FRANCO ROSSI: MANTENERE IL SENSO DEL REALE, TRA STEREOTIPI E PRIVAZIONI DI IDENTITÀL’aeroporto è la rappresentazione di un luogo riconoscibile e irriconoscibile. Bastano pochi e semplici elementi per caratterizzarlo, ma sono, al tempo stesso, tratti che rispondono ad un immaginario collettivo condiviso – un luogo comune – non ad un’unica idea concreta. Sono momenti essenziali, quindi, quelli di apertura di “Smog”, pellicola di Franco Rossi del 1962. Perché è proprio il luogo che – per eccellenza – sembra essere privo di identità (nonostante si concentrino al suo interno migliaia di persone, culture e storie) ad introdurre una disamina su quello che si prova a ritrovarsi in un paese nuovo, costretti ad integrarsi senza avere gli strumenti adatti. E subendo, poi, tutta una vasta gamma di cliché e pregiudizi relativi all’immagine che – da sempre (?) – gli italiani trasmettono all’estero.

Il regista fiorentino (che ha lavorato a lungo in teatro e in radio prima di dedicarsi al cinema) racconta, nel suo “Smog”, la storia di un avvocato italiano, Vittorio Ciocchetti (Enrico Maria Salerno), che nel suo viaggio verso il Messico, si ferma per un giorno a Los Angeles. I suoi documenti sono stati trattenuti, per cui il disorientamento aumenta, aiutato anche dalla grandezza e dalla dispersività della città. Qual è l’impatto che questa città può avere su un uomo così radicato nei suoi spazi? Hollywood è realmente costituita solo da ville di divi? “Tutti vedono questo posto come una meta da raggiungere, un paese di uomini ricchi e liberi, che fa venire voglia di fare progetti”, viene detto a Ciocchetti. Eppure, quel fascino racchiude in sé anche una disperata solitudine. Dietro quella smania di vivere di agi e di goderne a vita, c’è anche un’altra realtà. Fu Vittorio De Sica a raccontare in un’intervista, ad esempio, del dramma di una domenica pomeriggio: “Abitavo in un albergo gigantesco a Hollywood, ma ero solo come un cane, con una grande malinconia addosso. Mi venne un desiderio pungente di vedere qualcuno. Da buon napoletano, penso che la vita non è vita se non si passeggia per una strada, si vede gente e si fanno quattro chiacchiere”.

E poi ci sono i luoghi comuni, che Franco Rossi dissemina con un fare quasi moralistico; viene continuamente ripetuto a Vittorio che tutti gli italiani amano il vino e il caffè o che hanno un talento per la cucina, ad esempio. Nei contatti che instaura l’avvocato, poi, sono racchiuse una serie di riflessioni sui valori che guidano gli italiani e gli americani; sul senso della realtà, della famiglia (“In Italia essere un marito significa ancora qualcosa”), e della tradizione. Sull’idea di donna, che in America può essere libera e non “serva di un marito”. Ma Vittorio stesso è una vittima dei suoi pregiudizi, della sua mentalità medio borghese, della sua viltà, persino. “Faccio divorziare gli altri, non sono mica io a farlo”, dice, come per de-responsabilizzarsi. È la sua realtà ad essere migliore di quella di Los Angeles, piena di persone che neppure si incontrano, ma sfoggiano le loro auto (almeno due, altrimenti sarebbe troppo noioso godersi quel “paradiso terrestre”) mostrando il loro attaccamento ai beni materiali.

%name “SMOG”, DI FRANCO ROSSI: MANTENERE IL SENSO DEL REALE, TRA STEREOTIPI E PRIVAZIONI DI IDENTITÀÈ la mediocrità, allora, ad essere protagonista in quest’opera che si inserisce nel filone dei film italiani all’estero, come “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata” di Luigi Zampa, alle pellicole di Gian Luigi Polidoro (“Il diavolo”, “Una moglie americana”, “Una moglie giapponese?”), “La mortadella” di Mario Monicelli, o ancora “Sistemo l’America e torno” di Nanni Loy. Persino lo smog non differisce da quello che Ciocchetti conosce: “Sarebbe questo il famoso smog?”