IL CNDDU RICORDA CARLO ALBERTO DALLA CHIESA

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Locandina 2024 300x165 IL CNDDU RICORDA CARLO ALBERTO DALLA CHIESAROMA – Il Coordinamento Nazionale dei Docenti della disciplina dei Diritti Umani, in occasione del 42° Anniversario dell’omicidio del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, intende ricordare la sua statura morale, prezioso patrimonio di valori civili da trasmettere alle nuove generazioni.

Il 3 settembre del 1982, il prefetto di Palermo e generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, insieme alla sua seconda moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo, perse la vita in uno dei più violenti agguati mafiosi del nostro Paese. L’auto con la quale viaggiavano le tre vittime, l’Autobianchi A112, fu dilaniata da una violenta scarica di trenta colpi di Kalashnikov AK47.

I killer scelsero, infatti, un’arma da guerra per mettere a tacere per sempre un coraggioso servitore dello Stato troppo scomodo per Cosa nostra, il quale si era inserito efficacemente nelle dinamiche della “Seconda guerra di mafia”, durante la quale i corleonesi stavano massacrando tutti i nemici per avere il controllo totale della “zona”. Per Dalla Chiesa “l’arroganza mafiosa doveva cessare” e in tempi brevi. Al generale bastarono poco più di 100 giorni nella prefettura di Palermo per dar voce alla speranza dei palermitani onesti, speranza che durò pochissimo perché Cosa nostra, attraverso i sicari di via Carini, “sette o otto di quelli terribili”, fece ripiombare i cittadini nell’orrore delle stragi e della violenza criminale.

Ricordiamo oggi anche alcune vittime innocenti spezzate dalla criminalità organizzata attraverso le parole di alcuni studenti della classe IV sez. C e G del liceo scientifico Filolao di Crotone:

Carlo Alberto dalla Chiesa nacque a Saluzzo nel 1920. Dopo una prima esperienza nell’esercito, entrò a far parte dei carabinieri. L’armistizio del 8 settembre 1943 segnò una svolta nella sua vita: si unì alla Resistenza, impegnandosi nella lotta contro il regime fascista. Dopo la II guerra mondiale, fu assegnato a Bari, dove conobbe sua moglie. Le sue prime esperienze operative si svolsero in Campania e in tale contesto si dedicò al contrasto del banditismo. Poi, venne inviato in Sicilia per combattere Salvatore Giuliano, suo primo incarico contro un esponente malavitoso. Dopo questo periodo fu trasferito in diverse città italiane, continuando a distinguersi per la sua abilità e determinazione. Nel 1966 tornò in Sicilia dove comandò la legione dei carabinieri con il grado di colonnello. Durante questo periodo Dalla Chiesa si trovò ad affrontare episodi come la strage di Viale Lazio del 1969 e la misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro nel 1970. Le indagini furono svolte in collaborazione fra i Carabinieri e la Polizia, sotto la direzione di Boris Giuliano, anch’egli in seguito ucciso dalla mafia. Nel 1971 si trovò a indagare sull’omicidio del procuratore Pietro Scaglione, un evento che scosse profondamente l’opinione pubblica. Le indagini portarono alla creazione del famoso “dossier dei 114” del 1974, che condusse all’arresto di numerosi boss mafiosi. Tuttavia, una delle intuizioni più brillanti di Dalla Chiesa fu quella di spostare i boss confinati non nelle città del Nord Italia, ma in isole remote come Linosa, Asinara e Lampedusa, riducendo così le loro possibilità di mantenere il controllo sulle attività criminali. Successivamente, la sua carriera si orientò verso il contrasto al terrorismo. A partire dal 1974, Dalla Chiesa guidò la cattura dei leader delle Brigate Rosse e fu nominato responsabile della sicurezza nelle carceri. In seguito al drammatico sequestro e omicidio di Aldo Moro, gli fu affidato il compito di coordinare la lotta al terrorismo, ottenendo notevoli successi. Dopo i traguardi raggiunti contro il terrorismo, negli ultimi anni della sua vita ritornò in Sicilia, questa volta come Prefetto di Palermo con l’obbiettivo di contrastare una mafia sempre più potente. Tuttavia, la mafia non aveva intenzione di permettere che un uomo come lui potesse interferire con i suoi affari. La sera del 3 settembre 1982, un commando mafioso lo assassinò. La sua morte, avvenuta poco dopo il suo arrivo a Palermo, scosse l’Italia intera, diventando il simbolo della lotta senza quartiere contro la criminalità organizzata. Dalla Chiesa non fu solo un abile stratega militare, ma anche un uomo dotato di un profondo senso dello Stato e di una straordinaria etica del dovere. Il suo approccio contro la mafia e il terrorismo era del tutto innovativo, non era incentrato solo sulla repressione, ma soprattutto sulla comprensione delle dinamiche che alimentavano tali fenomeni. La sua tragica fine, tuttavia, pone una riflessione più ampia: la lotta contro il crimine organizzato non può essere delegata a singole personalità, per quanto capaci, ma deve diventare una battaglia collettiva. L’eredità di Carlo Alberto Dalla Chiesa non risiede solo nei risultati concreti che ha ottenuto, ma anche nell’esempio di coraggio e integrità che ha lasciato. Oggi, più che mai, la sua figura rappresenta un monito e un richiamo alla responsabilità delle istituzioni e dei cittadini nel contrastare ogni forma di criminalità e corruzione, perché Carlo Alberto dalla Chiesa è stato un esempio luminoso di integrità morale e di impegno civile. La sua vita è stata caratterizzata da un profondo senso del dovere e da un’incondizionata dedizione allo Stato e alla Repubblica.

Dalla Chiesa ha incarnato e per noi giovani continua ad incarnare i valori di giustizia, legalità e rispetto per i diritti umani. La sua lotta contro il terrorismo e la mafia non era solo una questione di legge, ma un urlo di battaglia per la dignità e la libertà di ogni cittadino. Credeva fermamente che la legalità fosse il fondamento di una società giusta ed equa e ha dedicato la sua vita a difendere tali principi.

Il suo coraggio e la sua determinazione hanno ispirato molti, dimostrando che la vera forza risiede nella capacità di rimanere fedeli ai propri valori anche e soprattutto di fronte alle avversità. Dalla Chiesa non ha mai esitato a mettere a rischio la propria vita per proteggere la comunità e garantire un futuro migliore per le generazioni a venire, la sua integrità morale era evidente in ogni sua azione: non cercava il potere o la gloria personale, ma lavorava instancabilmente per il bene comune. La sua figura rimane un simbolo di speranza e di resilienza, un esempio di come l’impegno civile e il rispetto per la legge possano fare la differenza nella lotta contro l’ingiustizia, l’illegalità, il terrorismo e le mafie.” (Andrea Cacozza)

Antonio Mancino, giovane carabiniere di appena 24 anni, la prima vittima della banda di Salvatore Giuliano, rappresenta una ferita profonda nel tessuto della storia siciliana. La sua morte, avvenuta a San Giuseppe Jato in provincia di Palermo, non fu solo un atto di brutale violenza, ma il segno tangibile di un’epoca in cui l’ombra della mafia si estendeva su ogni aspetto della vita quotidiana. Mancino, un uomo semplice, fu strappato alla vita in un momento in cui il coraggio di opporsi a certe forze era raro e pericoloso. La sua fine avvenne in circostanze terribili: fu brutalmente assassinato da Giuliano, che lo giustiziò a sangue freddo. Il suo corpo fu lasciato sul ciglio di una strada, esposto come monito per chiunque avesse osato sfidare l’autorità del boss. Questo atto di violenza non solo mise fine alla sua vita, ma lanciò un messaggio di terrore a tutta la comunità. La morte di Mancino è un simbolo del prezzo pagato da tanti innocenti in una terra in cui la giustizia sembrava spesso assente, e la violenza era la moneta corrente per affermare il controllo e la paura. Il sacrificio di Mancino, però, non deve essere dimenticato. Anzi, deve rimanere un monito costante per le generazioni future, un richiamo alla memoria collettiva affinché il passato non si ripeta. La sua storia ci invita a riflettere sull’importanza della legalità, del coraggio civile, e della necessità di contrastare ogni forma di criminalità organizzata con la forza della solidarietà e della giustizia. Antonio Mancino non è solo una vittima, ma un simbolo della resistenza silenziosa di una comunità che, nonostante tutto, non ha mai smesso di sperare in un futuro migliore.” (Mattia Accardo)

Fra i numerosi attentati del 3 settembre ricordiamo quello della Stazione di Polizia di Partinico, provincia di Palermo, avvenuto nel lontano 1948.

Erano le 23.00 quando le luci della zona dove si trovava la Stazione di polizia vennero spente, proprio in quel momento arrivavano alcuni malviventi che si pensa facessero parte della banda Giuliano. A luci spente, poco dopo, si udirono esplosioni violente causate da bombe a mano. Quando le luci vennero riaccese, trovarono i corpi quasi irriconoscibili e mutilati del Capitano dei Carabinieri Antonino di Salvo, del maresciallo Nicola Messina, comandante della local stazione di polizia e Celestino Zapponi commissario di Polizia, durante l’ attacco altri agenti vennero feriti.

Mentre gli agenti di Polizia iniziavano le indagini per capire se altre persone fossero coinvolti nell’esecuzione di questa strage, i corpi delle povere vittime rimasero fino alle prime ore dell’alba sul piazzale situato davanti alla stazione di polizia, coperti dai lenzuoli presi dall’allogio militare. Furono anni di fuoco e di sangue, molti degli attentati erano da attribuire proprio agli uomini di Giuliano, che furono gli artefici della morte di molte persone ma soprattutto di molti uomini delle forze dell’ordine, durante anni di terrore e desiderio feroce di imporre la propria presenza sui territori. La morte di Zapponi si pensa sia stata una vendetta per aver ucciso durante uno scontro a fuoco il bandito Michele Cuoco. Una serie di continui attacchi mirati per imporsi sull’operato delle forze dell’ordine nel tentativo di instaurare con violenza la propria autorità È importante che ci siano giorni della memoria perché è solo con il ricordo che le coscienze possono acquisire consapevolezza rispetto a tutto ciò che ci circonda affinché non si ripetano sempre gli stessi errori. Non bisogna arrendersi al pensiero che la morte di simili eroi sia stata vana, ma portare le nuove generazioni a pensare che uomini del passato hanno perso la propria vita per il bene comune e se ognuno di noi facesse la propria parte non ci sarebbero più vittime e carnefici. La memoria e la presa di coscienza, l’impegno e la lotta per la legalità da parte della società civile devono divenire consolazione e orgoglio per le famiglie che hanno perso i propri cari, per far sì che la rabbia e il dolore si trasformino in desiderio di cambiare le cose.” (Ludovica Berardi)

Era una domenica sera del 2 Settembre del 2001 quando Stefano Ciaramella, un adolescente di appena 17 anni, rimase vittima innocente di una banda criminale. In tarda serata aveva deciso di incontrarsi con la fidanzata, in una stradina del quartiere di Casoria, per portarla in giro con il motorino. Non avrebbe mai immaginato che quello sarebbe stato il loro ultimo incontro poiché’ un gruppo di quattro ragazzi, non ancora maggiorenni del centro abitato aveva pianificato, per puro divertimento, una serie di rapine, il cui obiettivo erano proprio i motorini. Quella stessa sera si focalizzarono sui due innamorati, impegnati in una silenziosa conversazione. Si diressero verso di loro con passo svelto, iniziando a minacciarli e costringendoli a consegnare il poco denaro che avevano, la borsa della ragazza e soprattutto il motorino. Malgrado avessero ottenuto tutto ciò, l’attenzione di uno di loro si spostò sulla bellissima ragazza che venne strappata con violenza dalle braccia dell’amato. Stefano non ci pensò due volte: saltò verso il delinquente, iniziando così una forte rissa. Gli amici del rapitore iniziarono a tirare calci e pugni a Stefano senza nessuna pietà. Per farla finita, uno di loro estrasse un affilato coltello, non troppo grande, che colpì il cuore di Stefano, sanguinante dai continui colpi ricevuti precedentemente. La giovane, sconvolta dalla scena appena vista, rimase sola con in braccio il corpo senza vita del fidanzato e con un ricordo troppo doloroso da dimenticare. L’ambulanza arrivò poco dopo l’accaduto, ma non c’era più nulla da fare: Stefano si era spento nel momento stesso in cui il coltello lo aveva penetrato. Dopo alcune ricerche, i colpevoli furono trovati e arrestati, ammettendo le loro colpe, ma nonostante ciò la vita di un indifeso giovane fu tolta tragicamente: un ragazzo che aveva progetti per il futuro e sogni che avrebbe voluto realizzare. La tragica morte di un giovane che ha sacrificato la propria vita per difendere la fidanzata da dei rapinatori è un evento che ci colpisce profondamente. Tale atto di coraggio e amore, purtroppo, si è concluso con una coltellata al cuore, portando via una vita preziosa e lasciando un vuoto incolmabile nelle vite di chi lo conosceva e amavaÈ fondamentale che la società non dimentichi mai il sacrificio di questo giovane eroe. La sua memoria deve essere un monito per tutti noi, un richiamo alla necessità di prendere una posizione ferma contro l’illegalità e la violenza. Ogni cittadino ha il diritto di vivere in sicurezza, senza la paura di essere vittima di crimini così efferati. Invito tutti a riflettere su questo tragico evento e a unirsi nella lotta contro l’illegalità. È solo attraverso l’impegno collettivo e la determinazione che possiamo sperare di costruire una società più giusta e sicura, dove atti di violenza come questo non abbiano più luogo. Ricordiamo il giovane eroe non solo con le parole, ma con azioni concrete che promuovano la giustizia e la sicurezza per tutti.” (Arianna Balotta)

Quella di Giuseppe Francese è una storia molto triste. Nato a Palermo nel 1966, era il figlio più piccolo di Mario Francese, il famoso giornalista ucciso da Cosa Nostra. Giuseppe si ricorda bene la morte del padre e da sempre aspetta il momento giusto per vendicarsi. Rovistando tra gli elaborati del padre, ha trovato numerose inchieste, interviste e articoli che andavano contro la mafia. In più ha seguito per molto tempo il processo a mandanti ed esecutori dell’agguato ai danni del padre. È da qui che Giuseppe riapre l’inchiesta sull’omicidio del papà. Grazie alla sua caparbietà, Giuseppe riuscì, dopo tante indagini, a rendere giustizia al padre facendo arrestare Bagarella, Riina, Provenzano e altri quattro mafiosi. Quella di Giuseppe si può definire un’impresa dalla quale uscì vincitore, anche se ciò non servì a colmare il vuoto causato dalla morte del papà. Il 3 settembre 2002, lasciò un biglietto in cui si reputava soddisfatto del suo operato e chiedeva pubblicamente scusa, poco dopo si uccise. Aveva 35 anni. Quello di Giuseppe è il giusto esempio di volontà, coraggio e caparbietà. Alla fine, il suo duro lavoro è stato ripagato e l’operato di Giuseppe fece tantissimo scalpore. Non sono bastati i complimenti di tutti, quello che voleva era solo suo padre. Nonostante si sia trattato di suicidio, Giuseppe viene considerato vittima di mafia, perché questa morte, pur essendo indiretta, è stata indotta proprio dal potere mafioso, che anche indirettamente continua a versare fiumi di sangue.” (Alessandro De Rose)

Alle 23:00 del 3 settembre 1998 a Scisciano, in provincia di Napoli, Giuseppina Guerriero, all’età di 43 anni, mentre tornava a casa nella sua automobile, dopo aver effettuato un colloquio di lavoro presso un ristorante in via Garibaldi, venne colpita alla testa durante una sparatoria tra camorristi. L’assassino (condannato nel 2001 a 24 anni di carcere) aveva intenzione di sparare a Saverio Pianese, capo zona del clan Capasso, che si trovava all’interno della sua autovettura, ma in quel momento l’auto di Giuseppina è entrata nella traiettoria degli spari e rimase gravemente ferita.

Giuseppina venne ricoverata in ospedale al Loreto Mar; morì qualche giorno dopo e la famiglia acconsentì all’espianto degli organi.

Nell’aprile del 2013 durante il passaggio della Carovana Antimafia Internazionale nell’hinterland nolano, venne inaugurato il presidio di Libera di San Vitaliano intitolato a Giuseppina Guerriero.

Il ricordo di questa giovane donna e madre di quattro figli, di cui la più piccola quattordicenne, non è mai stato dimenticato. Viene ricordata nel libro di Gigi Di Fiore “La Camorra e le sue storie”, pubblicato da U.T.E.T nel 2005 e nel “Dizionario Enciclopedico delle Mafie in Italia”.” (Sofia Favaro)

Raffaele Antonio Talarico nasce a Sambiase. Era una Guardia Particolare Giurata che lavorava presso un cantiere località Lamezia Terme. Mentre apriva il cancello venne sparato da colpi di arma da fuoco alle spalle da un gruppo di criminali. L’ omicidio suscitò grande preoccupazione nella comunità e vennero avviate subito delle indagini da parte delle Forze dell’ordine e della Magistratura; inizialmente le indagini si bloccarono per via delle poche informazioni che non erano sufficienti per accusare i sospettati, ma dodici anni dopo vennero riaperte le indagini poiché un ex criminale andò a confessare il delitto, venendo riconosciuto come colpevole per aver partecipato all’omicidio insieme ad altri membri del clan. Le indagini si conclusero con la condanna di 30 anni di reclusione, l’undici maggio 2011.

La storia di quest’uomo rappresenta la necessità di contrastare le attività criminali e di rendere giustizia alle vittime innocenti come in questo caso, quest’uomo non aveva mai recato danni a nessuno, stava semplicemente svolgendo il suo lavoro quando la sua esistenza venne bruscamente spezzata da dei malviventi.

Le mafie rappresentano una delle piaghe più devastanti della nostra società, in quanto senza pietà colpiscono le persone oneste che lavorano duramente per costruire un futuro migliore per sé e per le loro famiglie. La codardia della criminalità organizzata si manifesta nel modo più vile: uccidendo alle spalle, senza dare possibilità di difesa, spezzando vite e sogni.

È fondamentale che la società civile prenda una posizione ferma contro queste atrocità.Solo attraverso un impegno collettivo e determinato possiamo sperare di sconfiggere le mafie e costruire una società più giusta e sicura per tutti. Non dimentichiamo mai il coraggio di chi ha perso la vita per difendere la giustizia e la legalità.” (Vanessa Audia)

Noi crediamo fortemente che commemorare uomini come Carlo Alberto Dalla Chiesa e le tante vittime innocenti delle mafie sia già fare educazione civica, perché significa parlare ai ragazzi del ruolo attivo dei cittadini e del modo di operare dello Stato.

Dilatiamo, quindi, il tempo del ricordo e facciamo in modo di non arrivare, ogni anno, inconsapevoli al 3 settembre. Educhiamo i nostri ragazzi al vivere civile e ai valori della legalità.

Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani rileva come il progetto “#inostristudentiraccontanoimartiridellalegalità” stia diffondendo tra le giovani generazioni volti, storie, episodi veramente straordinari per la loro valenza educativa.

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