LA SESSUALITÀ DEVIATA E COMPULSIVA: TODD SOLONDZ E YORGOS LANTHIMOS

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di Mariantonietta Losanno

%name LA SESSUALITÀ DEVIATA E COMPULSIVA: TODD SOLONDZ E YORGOS LANTHIMOSUn’indagine che vuole interrogarsi sulla rappresentazione di depravazioni e forme più o meno complesse di mostruosità, non può prescindere dal contributo di David Cronenberg, la cui opera più recente – “Crimes of the future” (2022) – ri-conferma l’attenzione verso i significati di crimine, paura, piacere, bellezza, evoluzione; in cui si ri-pone al centro dell’attenzione il valore del corpo e l’impegno messo affinché raggiunga determinati livelli. Cronenberg riprende i suoi concetti chiave – godere e soffrire – per analizzare distopicamente (ma è, forse, più un modo per non figurare dettagliatamente e pericolosamente i contorni del futuro) possibili sviluppi del crimine, del sesso e dell’arte; si domanda, cioè, in che modo sia aumentata la soglia del dolore (di chi soffre e di chi assiste) e fino a quale punto si proverà a farla arrivare per diventare immuni. A cambiare saranno i centri del dolore, le reazioni ai traumi, l’accezione delle parole; anche il sesso cambierà forma, saranno necessarie nuove perversioni, per cercare piacere si farà ricorso a metodi nuovi, a nuovi punti e nuove esplorazioni del corpo. Se si modificheranno le pulsioni, allora, anche l’arte modificherà i suoi significati? Si cercheranno nuove emozioni, legate a queste nuove forme di godimento e violenza? Si cercherà un punto di arrivo ancora più lontano, suggerisce Cronenberg, realizzando con la sua opera un’azione lungimirante e visionaria, che insinua dubbi (nella realtà ipotizzata l’uomo stesso sarà nemico, privandosi di sensibilità e senso del dolore?) prospetta scenari, mette in scena lo stadio successivo alla condizione attuale.

Nel mondo di Todd Solondz non esistono inibizioni o tabù; l’intento è quello di creare continuamente ambiguità, suscitando nello spettatore una sensazione di confusione e un esercizio di ricerca di libertà. Il regista non indugia su particolari irritanti o sgradevoli, nonostante siano state mosse continuamente critiche sulla sua eccessiva vena morbosa. In “Storytelling” (2001), compare una scena di sesso molto cruda, nel corso della quale viene giridata una frase altrettante forte: nella versione censurata della pellicola, viene, per questo motivo, coperto l’atto con un rettangolo di colore rosso, con l’inevitabile risultato di suscitare negli spettatori una curiosità ancora più morbosa. È la visione della realtà ad essere il legame tra i diversi autori: Haneke, Solondz e Lanthimos (e prima di loro Cronenberg) non hanno la presunzione intellettualistica di voler fornire un’interpretazione del mondo, ma si cimentano nel dare al pubblico la possibilità di interrogarsi sulla condizione di chi vive in un contesto malato. Solondz tratta il tema della pedofilia, Lanthimos dell’educazione familiare che trasforma i figli in vittime anestetizzate, Haneke si misura con l’incesto e con le mutilazioni genitali.

Quello che accomuna i tre sguardi è la convinzione che il cinismo e la meschinità del Male siano nascosti all’interno di chiunque, ma spesso è più semplice e comodo pensare che siano solo i cattivi ad avvicinarsi alla violenza. Pur affrontando le questioni più scabrose e dipingendo personaggi sempre più al limite dell’amoralità, i tre registi riescono a trasformare l’inquietudine in qualcosa di socialmente accettabile. Qualcosa che, addirittura, merita pietà; qualcosa che può essere persino considerato bello o pregno di poesia: il «brutto» trova, così, il proprio spazio. Un’operazione simile è stata compiuta anche da un altro regista che può essere associato ai tre sopra citati: David Lynch. Nelle sue opere (pittoriche prima e cinematografiche poi), il Bene e il Male forgiano tutti indistintamente; per questo il suo cinema è così difficile da spiegare e il regista stesso così restio a spiegarsi: perché la parola non può attingere al nucleo dell’incubo, può solo lambirlo. La percezione, alterata ma mai falsificata, è proiettata al di là del visibile: uno spazio di sogno dove il banale può mostrare la sua intima ironia, la verità del desiderio rivelarsi con forza prorompente e dove lo sguardo, fendendo il reale, riesce ad affacciarsi sullo spazio nero tra un pensiero e quello successivo, il mistero che non è dato conoscere. È così che, allora, nel paese delle meraviglie – o degli orrori – si trovano nani, giganti e corpi senza vita di reginette da ballo. Ed è così che, allo stesso modo, in quello di Solondz trovano spazio i suoi freaks. A ciascuno i propri. Nella filmografia di Yorgos Lanthimos c’è più di un’opera che ricorda il punto di vista di Haneke e le sue atmosfere familiari. “Dogtooth” (2009) è una vera e propria sfida presentata e giustificata come un’allegoria, ambientata all’interno di un mondo che non sembra reale e in cui vive una famiglia autarchica. I figli apprendono tutto quello che viene loro insegnato, e i genitori si impegnano a lavorare sulle loro paure, nascondendo qualsiasi significato possa accendere in loro il desiderio di conoscere, esplorare o semplicemente vivere. Come in un regime totalitario, i genitori minacciano creando terrore: in questo modo si assicurano il rispetto dei figli e la loro totale abnegazione. Lanthimos educa i propri spettatori, ipnotizzandoli e agendo sulle loro fragilità: manipola, intrappola, distorce. Tutto questo ai fini di costruire un’identità asservita e malata; tutto, però, all’interno di una prigione idilliaca immersa nel verde. In quello che appare uno stato fascista in miniatura, se non esiste parola che identifichi la reazione e non l’asservimento, allora non esiste.

%name LA SESSUALITÀ DEVIATA E COMPULSIVA: TODD SOLONDZ E YORGOS LANTHIMOSLa famiglia – sacra anche per Haneke – diventa un teatro della crudeltà, in cui la violenza e le aggressioni si manifestano senza essere giustificati. Gli spettatori si trasformano in cavie da laboratorio, i corpi e le menti vengono assoggettati al punto di diventare ignoranti, incapaci di distinguere la realtà dalla finzione. Un universo così, in cui Haneke, Lanthimos e Solondz si incontrano, esiste ogni qualvolta ci si immagina che stia esistendo, come se fosse tutto un incubo. Le satire che vengono realizzate dai tre registi sono radicali, insolenti, sovversive. Ogni opera ripropone in maniera ossessiva la stessa idea di violenza e di amore; la quotidianità viene svelata nelle sue ipocrisie e non si avverte mai la sensazione che si voglia compiacere il pubblico, omologandosi ai gusti diffusi. La provocazione, però, non è mai fine a sé stessa: pone di fronte ad uno specchio (deformante) in cui sono messe a nudo paure, illusioni, sessualità deviate e compulsive, regole imposte dalla morale perbenista.

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