di Vincenzo D’Anna*
Al grande giornalista ed intellettuale italiano Indro Montanelli, viene attribuita la seguente iconica espressione: “Quando un italiano vede passare una macchina di lusso, il suo primo stimolo non è averne una anche lui, ma tagliarle le gomme”. In breve, l’inclinazione più diffusa nel Belpaese non è tanto l’ammirazione quanto l’invidia. Non si tratta solo di frustrazione, di un inconfessato complesso di inferiorità, dal quale nasce la comparazione tra quello che si possiede e quello che si presume posseggano gli altri, ma di un vero e proprio dato di cultura sociale. Un sentimento strisciante che finisce per diventare un corollario avvelenato dei nostri successi individuali. Tuttavia l’invidia non è un’emozione umana, non è una caratteristica che appartenga al corredo genetico degli individui, ancorché essa abbia trovato terreno particolarmente fertile nella nostra società. Insomma, per quanto psicologi, psichiatri e sociologi (tutti studiosi del comportamento umano) si siano sforzati, non sembra essere mai stata trovata una relazione organica, una carenza psichica, un disturbo nervoso in grado di spiegare un simile comportamento. Certo molto incide l’ambiente nel quale si cresce, l’educazione, l’esempio che viene dato in famiglia, il vivere in un piccolo paese ove nulla sfugge, ma il tutto resta pur sempre rinchiuso entro atteggiamenti soggettivi ed individuali. Niente dunque che possa essere ricondotto ad un fenomeno così diffuso. Vilfredo Pareto, grande economista e sociologo vissuto a cavallo tra l’800 ed il ‘900 del secolo scorso, parlando del grande fascino che suscitava il socialismo sulle persone, asseriva che una società in cui lo Stato provvedeva, dalla culla alla bara, a ciascun cittadino, doveva essere tranquillizzante per quelli che, non intendendo affrontare una vita nella quale vi fossero esiti diversi e competizione, si accontentavano di essere tutti eguali tra loro, anche se… egualmente poveri!! Insomma la diversità degli esiti di vita innesca disagio. È da questo che nascono l’odio ed il rancore sociale. Quindi la critica verso coloro che riscuotono successo finisce con l’essere causa di frustrazione e di invidia. Ogni termine di paragone con la vita altrui può rivelarsi motivo di sconforto e quindi spingere a demolire i meriti altrui, attribuendoli alla fortuna, all’imbroglio, all’illegalità, ai privilegi politici o sociali, assegnando al successo stesso cause ignobili o fortuite. Alzi la mano chi pensando ad un grande orizzonte di riferimento, ossia all’umanità come una categoria generale e pertanto ignota, non coltivi sentimenti positivi improntati alla benevolenza ed alla generosità. E resti con il braccio alzato chi, accorciando tale prospettiva in modo da cominciare a distinguere le singole persone, non trovi motivo di sentirsi deluso a causa di accadimenti pregressi. Lo stesso dicasi per l’ammirazione verso quelle persone percepite come degne di apprezzamento per fatti trascorsi. È il caso delle considerazioni negative, delle dolenti note, che costituisce la chiave di volta perché chi è valido, pur avendo da poter ridire, non si crucci di osservare il successo raggiunto dagli altri. In parole povere: chi è veramente soddisfatto di sé stesso, della vita pratica e sentimentale che vive, non coltiva invidia perché manca il presupposto della frustrazione per poterlo esprimere. In effetti la sindrome del papavero è un’allegoria logica che si riferisce ad un campo nel quale, pur presenti tanti fiori, svetta in altezza, per sua natura, lo stelo del papavero. Ne consegue che per l’osservatore sia appunto quello il fiore più notato ed ammirato. Ora, non essendo possibile, per loro natura, che gli altri fiori del campo possano accrescersi per mettersi anch’essi in mostra, l’unico rimedio è…tagliare gli steli degli alti papaveri così da riportare al grigiore ed alla mediocrità tutti gli altri fiori. La morale di fondo, applicabile in tutte le umane fattispecie, è che si possa omologare ed equiparare cose e persone solo verso il basso, riducendo le qualità di chi si distingue in modo da soddisfare il rancore e l’invidia sociale. Ma a tutto c’è rimedio senza doglianza: basterà tirare innanzi ignorando critiche e maldicenze, purché non scadano nella calunnia e nella menzogna. La bandiera garrisce sul pennone più alto ed è pertanto esposta a tutti i venti. Meglio essere esposti sapendo di doverne pagare il prezzo che vivere tra le erbacce e nell’angustia di non poterlo essere. Ed è così che ci ritroviamo a guazzare nell’idea che siano gli alti papaveri il problema e non le erbacce che infestano il campo.
*già parlamentare