di Mariantonietta Losanno
L’incomunicabilità può essere superata e sconfitta nel modo più cinematografico possibile: senza bisogno di parole. Come non c’è bisogno di parole per esprimere lo strazio e il dolore della morte in “Amour” di Michael Haneke e in “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni. La vicinanza dei due registi si concretizza nel comunicare per immagini e nella limpidezza espressiva così lontana dai cliché, nel porre la borghesia come situazione preferita, focalizzando l’attenzione sul vuoto e sulla noia dietro le apparenze e sulla decadenza per corrosione interna. L’interesse verso la classe medio borghese suggerisce, ai fini della nostra analisi, un confronto tra due pellicole dei due autori: “Caché – Niente da nascondere” e “Le amiche”. Nella prima opera Haneke conduce lo spettatore nelle irresolutezze di una coppia in cui l’apparente tranquillità viene sconvolta da un’intrusione: si tratta di
videocassette che ritraggono momenti della loro vita privata. L’obiettivo del regista non è solo arrivare ad una verità, ma insistere sulla rielaborazione dei ricordi, sul senso di colpa e sulla vigliaccheria di una classe sociale che tenta di mantenere salda la propria integrità.
Ne “Le amiche” Antonioni sviluppa il discorso con accanimento, soprattutto nel modo di presentare i personaggi, caratterizzati esattamente fin dal loro primo apparire: sono tutti la sintesi di un’unica intuizione-base, quella che li pone come vittime dell’ambiente ma anche interessati ad entrarvi. Gli intenti di base dei due autori sono comuni: si osserva in entrambe le opere il farsi e il disfarsi delle coppie, la fragilità, la falsità dei rapporti tutti «buttati fuori». La coppia non può crollare se non c’è niente che sta in piedi, sono solo le formalità a portare avanti le cose, come per inerzia. Il discorso sulla reificazione dei sentimenti all’interno delle due pellicole trova la sua nota stilistica; i dialoghi diventano funzionali a portare gli atteggiamenti in superficie: muovendosi sul piano del confronto tra i due autori è evidente come abbiano concentrato la loro energia nel mostrare il fallimento di un sistema di valori, l’egoismo avido di chi si nasconde e si deresponsabilizza. Il regista prende spunto da un’altra opera: si tratta di “Strade perdute” (1997) di David Lynch. La pellicola è tratta dal testo di Cesare Pavese “Tra donne sole” (1949).
Proseguendo l’analisi e spostando l’attenzione su un altro tema che interessa entrambi i registi, è possibile condurre un’analisi sull’essenzialità e il rigore depurativo in “Professione: reporter” e “Amour”. Il primo è un film cruciale nella carriera di Antonioni, perché i due strati che talora si intersecano nei suoi film sembrano chiarirsi: un intento significativo (di costume o sociologico), che può arrivare al didascalismo, e la sua dissoluzione antinarrativa, l’andar oltre, cercando l’incisione della metafora attraverso la dissezione e l’ampliamento della risonanza del fatto. Il regista presenta un dato di partenza per poi proporre una successiva apertura, una rottura verso altri scopi, soluzioni più congeniali o soluzioni di stile; riesamina e rende problematiche le antiche categorie del «mostrare» e del «raccontare», riconsiderando il loro legame, partendo dalla complessità dell’elemento originario, l’immagine. La sicurezza apparente della visione lascia il posto, una volta che l’indagine prosegue, all’incrinatura, al non definibile: analoga sorte tocca alla narrazione. Il lavoro è quello di rottura delle linee di racconto, per cogliere l’eco dei fatti, i gesti pedinati, i momenti opachi. Un simile generale movimento compie Michael Haneke con “Amour”, in cui denota una propensione verso le zone d’ombra del senso, quelle che Roland Barthes definisce «sottigliezze del senso».
Nel raccontare la vita che continua nonostante ci si ritrovi alla fine, Haneke mostra un rigore assoluto, spingendo lo spettatore a sperimentare la sofferenza e ad analizzare l’amore rappresentato non come l’idillio di una coppia, ma come qualcosa di primordiale e indicibile, che vive di cura, dolcezza, rabbia, forza e persino cattiveria. La «crudeltà» di cui è stato sempre accusato il regista austriaco in “Amour” rappresenta la crudeltà della vita stessa, quell’angoscia insostenibile che può essere contrastata solo custodendo gelosamente quello che resta rendendolo vivo. In un modo analogo, in “Professione: reporter” Antonioni carica lo spazio di significati, affidando soluzioni drammatiche all’articolarsi di spazi mai inerti.
Quello che consente l’accostamento dei due autori è l’essere parte di quello che può essere definito un cinema di assenze, caratterizzato di pieni incombenti ma più spesso di vuoti carichi di senso.