Poste italiane, quando lo Stato bara

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di Vincenzo D’Anna*
Un vecchio adagio recita che per i nemici la legge si applica, per gli amici si interpreta. Se però si tratta dello Stato, la legge addirittura si cancella!! Per dirla con altre parole, lo Statalismo ha regole a geometria variabile: esse sono valide per cittadini ed imprese ma poi vengono disattese quando si tratta di aziende pubbliche. Un privilegio, insomma, utilizzato per sottrarsi alle regole della concorrenza ed al rispetto delle proprie stesse norme. E’ questo il caso di Poste Italiane, l’azienda di Stato che vanta numeri considerevoli: 160 anni di storia, circa 120.000 dipendenti e 12.800 sportelli territoriali, 586 miliardi di euro di investimenti finanziari e un pacchetto d 45 milioni di clienti. Un colosso che prima di diventare società per azioni, con capitale in quota preponderante nelle mani del ministero dell’Economia, ha funzionato anche come formidabile cinghia di trasmissione occupazionale nella disponibilità della “politica politicante”. Nel corso degli anni, Poste Italiane ha cambiato, via via, pelle anche in relazione all’avvento dei social, della mail e della Pec, strumenti che la stragrande maggioranza degli italiani utilizza ormai quotidianamente per comunicare. Oggi l’azienda è più che altro un veicolo finanziario con i suoi corposi depositi. In pratica, grazie ai libretti ed ai buoni fruttiferi, ha in “pancia” circa 240 miliardi di euro che sono però gestiti da un altro ente statale: la Cassa Depositi e Prestiti. Quest’ultima, sempre in mano a dirigenti e manager indicati dalla politica, finanzia opere pubbliche ed infrastrutture. Il combinato disposto tra depositi, cassa e prestiti rappresenta dunque un centro di potere economico e finanziario nella disponibilità del governo: un cospicuo gruzzolo per poter manovrare a piacimento così da realizzare investimenti, acquisizione di altre aziende e mettere in cantiere le opere in programma. Che lo Stato monopolista se la tenga ben stretta è sicuramente comprensibile; che la protegga dalla concorrenza e dalla partecipazione degli imprenditori è auspicato da coloro che la usano come leva politica per orientare il consenso elettorale. L’eterna storia dello Stato massimo, del suo presunto diritto di gestire i risparmi degli Italiani in forma esclusiva evitando che altri mettano il naso nei suoi Consigli di amministrazione, dove siedono manager amici, politici trombati o pensionati appartenenti all’area politica dei partiti di governo. Una difesa dell’esistente tetragona ad ogni cambiamento, sorda ai richiami della concorrenza e della competenza per allargare gli orizzonti e le possibilità di enti la cui natura e missione aziendale resta del tutto teorica e priva di stimoli. Se così non fosse il governo Meloni, per il tramite degli statalisti più nostalgici, come Alfredo Mantovani, sottosegretario a Palazzo Chigi, non si sarebbe clamorosamente contraddetto sulla più volte dichiarata propensione al liberalismo economico ed alla volontà di lasciare al mercato di concorrenza la facoltà di dispiegare tutte le sue potenzialità, con il miglioramento dei servizi e l’economicità dell’impresa. Per essere più chiari la storia è questa: Poste italiane ormai gestisce in prevalenza servizi finanziari che con le attività di posta universale non hanno niente a che vedere. Ebbene sarebbero proprio questi i servizi che dovrebbero essere offerti al cittadino ma in regime di concorrenza!! Così almeno si è espressa l’Autorità garante per la concorrenza, che ha rilevato l’abuso di posizione dominante da parte di Poste Italiane. Quest’ultima, secondo l’Autority, dovrebbe almeno garantire la vendita o la pubblicizzazione dei prodotti similari  di altre aziende non statali. Stiamo parlando di realtà private importanti, specializzate nella vendita di prodotti energetici. Peccato che Poste da quest’orecchio non ci senta. Il colosso publico gode di un vantaggio sugli altri competitori dal momento che sfrutta, in regime di monopolio, una vasta rete di uffici non permettendo l’immissione in quella reta dei prodotti offerti da altre ditte. Peraltro la legge anti trust (287/99) all’articolo 8, comma 2 quater, impone ai monopolisti legali (statali) di non poter trarre vantaggi che inibiscano la leale concorrenza con altri soggetti di impresa e di conseguenza l’avverarsi dei benefici che derivano proprio da quella concorrenza per i cittadini utenti del servizio. La perdita delle  offerte concorrenti, esistenti sul mercato, comporta mancati benefici (sconti, ulteriori vantaggi) per i cittadini sui quei prodotti finanziari. Tuttavia innanzi a questa contestata e palese violazione di legge, bene ha pensato il governo di abrogare la norma relativa allo specifico comma! In parole povere, di barare cambiando le regole del gioco. Un fatto inaudito che porta il Belpaese a livelli di Stato totalitario, quello che, quando non riesce a reggere la concorrenza,  abroga le norme di legge  in materia. Con queste alzate di ingegno provenienti da Palazzo Chigi chi volete che venga mai ad investire in Italia in quei settori finanziati per vitalizzare e migliorare l’offerta del mercato di concorrenza? Chi può mai fidarsi di un regime statale nel quale possa venire meno la certezza del diritto messo a garanzia degli investimenti? Un mezzo passo falso dell’esecutivo di centrodestra e la conferma che alla Meloni servano lezioni di di economia politica tratte dal moderno liberalismo. Altro che timori per il fascismo incipiente!! Qui, semmai, siamo nei dintorni del Bolscevismo.
*già parlamentare