– di Vincenzo D’Anna* –
Ogni giorno ha la sua croce ed in politica ne capita anche più di una se sei al governo della nazione. Giorgia Meloni lo sa benissimo e si attrezza come meglio può, ma per quanto riesca a fare per neutralizzare le polemiche aspre e pregiudiziali della minoranza parlamentare questa non rinuncia alla vocazione di essere sempre e comunque opposizione. Nella seconda repubblica il dato distintivo dei rapporti tra chi governa e chi controlla non prevede mai un punto di incontro, una soluzione legislativa condivisa, una sintesi nell’interesse del Belpaese. In altri tempi riuscivano a dialogare finanche la Dc ed il Pci. Accadeva quando le questioni sul tavolo erano di grande portata politica, se non quando le stesse si facevano drammatiche dovendo affrontare i pericoli di un’aggressione allo Stato democratico, come ai tempi dell’eversione terroristica. Una lezione andata irrimediabilmente persa, sia per la scarsa caratura dei politici contemporanei sia perché la discesa in campo di Silvio Berlusconi e le sue inaspettate e schiaccianti vittorie elettorali contro le sinistre, già pronte per assumere il comando della nazione, cancellarono certezze e speranze di quella controparte. La lotta diventò senza quartiere. Furono travolte tutte le regole deontologiche dell’agire politico. Si fece ricorso ad un moralismo d’accatto usato come colonna sonora, per annientare l’avversario per via giudiziaria, mediante il perpetuo ricorso allo scandalo. Il resto lo determinò il sistema elettorale adottato scelleratamente dal governo Renzi con la quasi unanimità dei consensi. Un sistema ibrido, metà maggioritario e metà proporzionale che non dà i frutti del maggioritario, come il premio di maggioranza, né del proporzionale che in effetti serve solo a far sopravvivere le piccole formazioni che vanno oltre il tre percento dei voti. Le preferenze di coloro che restano sotto quella soglia vengono dissipate e sparse in un calderone nazionale che le assegna a quelli che sono oltre soglia con un meccanismo oscuro che somiglia per lo più ad una specie di riffa. Un contesto che lascia spazio ai piccoli ricatti ed alle coalizioni alquanto ballerine che condizionano non poco, nel post elezioni, la stabilità degli esecutivi. D’Altronde siamo la patria del manuale Cencelli (sistema di spartizione delle poltrone) e di una carta costituzionale che fu improntata al compromesso tra forze antitetiche (cattolici e laici da una parte, socialcomunisti d’altra) e che attuava il principio che nessuno avesse il potere di decidere se non con il concorso degli altri. La paura dell’avvento di un dittatore o di un uomo che avesse il potere di recidere con la spada del consenso popolare i nodi gordiani della politica è ancora vigente e viene spesso invocata, attraverso lo spettro del fascismo, dalla sinistra quando questa – come spesso accade – non ha altro da dire. Quindi si tira a campare, a resistere nel tempo sulla falsariga di eterni compromessi sia dentro la compagine governativa, sia nel duro e ferale scontro con l’opposizione. Giorgia Meloni ha anch’essa quel tipo di piombo nelle ali e nello specifico deve fare i conti con Matteo Salvini e le sue funamboliche capriole circa i rapporti con la UE e sulla questione dell’invio di armi a Kiev per fronteggiare l’aggressore russo. Dopo aver depauperato un largo consenso elettorale nella scorsa legislatura, favorendo un governo a guida Cinque Stelle, salvo uscirne dopo poco più di anno, con l’editto lanciato dall’autorevole e solenne sede del bagno marittimo “Il Papete“, il leader della Lega rientrò nei ranghi del centrodestra lasciando all’allora ineffabile premier Giuseppe Conte il compito di varare un nuovo governo con il Pd al posto del Carroccio cancellando buona parte delle leggi salviniane. Roba da Guinness dei primati in materia di incoerenza e doppiezza politica!! In seguito il “Truce” Salvini ha appoggiato il governo Draghi e, da convinto assertore del “sovranismo”, ossia la lotta all’Europa trans nazionale, si è convertito alla politica filo europea del governo presieduto dall’ex governatore della Banca Centrale Europea. Così come ha scelto di accettare i lauti finanziamenti del PNRR da parte di Bruxelles e la politica di appoggio militare all’Ucraina. Perse malamente le elezioni europee, sconfitta mitigata dalla candidatura del generale Vannacci, altra perla da incastonare nel mosaico del qualunquismo cosmico ed a buon mercato, ecco Salvini eseguire un’altra piroetta con l’adesione al gruppo dei “Patrioti” insieme con la destra Francese di Marine Le Pen, dello spagnolo del partito Vox Santiago Abascal e dell’Ungherese “‘errante” Victor Orban. Insomma degno emulo del famoso artista trasformista Leopoldo Fregoli, il segretario leghista ha invertito la rotta marciando con quelli che l’Europa intendono scompaginarla e renderla neutrale. Una Ue amica di Putin, che flirta con Trump e che recuperi spazi al nazionalismo dei singoli Stati aderenti. Mancava l’ultima capriola: il contrasto alla Nato ed all’installazione di batterie di missili difensivi. La domanda sorgerà spontanea: fino a quando converrà farsi logorare da questo soggetto incolto ed incoerente? Una risposta potrebbero darla Renzi e Calenda. A patto che Giorgia vada, con loro, verso quella evoluzione politica chiamata “Centro”.