di Mariantonietta Losanno
È destabilizzante riflettere sul modo in cui – oggi – osserviamo e comprendiamo la sovrabbondanza di contenuti audiovisivi. La serialità ha lanciato una “sfida” a tutto quello che si presenta come un Cinema da contemplare. Che “scolpisce il tempo”, come quello di Tarkovskij, che così ha descritto: «La dominante assoluta dell’immagine cinematografica è costituita dal ritmo che esprime lo scorrere del tempo all’interno dell’inquadratura. Il fatto poi che questo stesso scorrere del tempo viene rivelato anche dal comportamento dei personaggi, dai trattamenti figurativi e dai suoni, tutto ciò costituisce soltanto una serie di componenti collaterali che, ragionando da un punto di vista teorico, possono anche essere del tutto assenti e, ciò nonostante, l’opera cinematografica esisterebbe lo stesso». Come reagire a questo Tempo “nuovo”, spezzato, inesistente come direbbe Italo Calvino?
«Lo spazio è ancora la filosofia dominante (oggi), non il tempo», ha affermato Lav Diaz in un colloquio con la giornalista Anna Tatarska. Quella che viene definita (erroneamente) lunghezza “eccessiva” è, piuttosto, espressione di un Cinema contemplativo – o «slow cinema» – che tiene lo spettatore continuamente in attesa, in ascolto, alla ricerca di qualcosa. Un’idea di Cinema che coinvolge Lav Diaz (e altre personalità come Andrei Tarkovskij, Theo Angelopoulos, Alexander Sokurov, Béla Tarr, Abbas Kiarostami), e che si oppone ad un pensiero cinematografico dominante, quello della serialità (e quindi dell’intrattenimento?) e ad una concezione della fruizione satura di ritmo e colpi di scena, che “sfida” il Tempo. Uno dei rischi più gravi è proprio l’ossessione per la misurazione: la temporalità accelerata che viviamo oggi è reale o un’illusione? Non abbiamo, cioè, realmente tempo o preferiamo non averlo? E, ancora, siamo più inclini ad un’assuefazione ad un Cinema che può essere ricevuto passivamente – dove il Tempo è concepito per non essere avvertito – o ci convinciamo che sia così? Quello che ci distrae dal nostro Tempo è la mancanza di disponibilità a porsi domande?
Sono interrogativi che – soprattutto oggi – ci poniamo (o ci dovremmo porre), soffermandosi sul mondo in cui le piattaforme del video on demand hanno cambiato, o meglio “stravolto”, la fruizione dei contenuti. Hanno, più nello specifico, reso evidente come sia diminuita l’attenzione e la volontà di osservare attivamente, a interrogarsi, confrontandosi con la durata delle immagini, con le inquadrature statiche, con tutto quello che – come abbiamo accennato – caratterizza il Cinema “puro”, filosofico, sorretto da eventi apparentemente minimi. E la sala? Come ha reagito all’imposizione di un nuovo modo di analisi dei contenuti? Se volessimo immaginare di condurre un esperimento e “spiare” il modo in cui viene osservato – e, quindi, analizzato – un prodotto di fronte al grande schermo, vedremmo, oltre ad una drammatica desolazione, una continua smania di accelerare la visione. Al di là di coloro i quali si rifugiano nel nevrotico ammasso di informazioni (non sempre stimolanti) fornite dagli smartphone, troveremmo sguardi stanchi, spesso annoiati, di chi vorrebbe poter interrompere la visione, aumentare la velocità di riproduzione o procedere di dieci secondi in avanti. Questo – forse – perché il Potere della serialità si è insinuato, in modo subdolo, sulla percezione del Tempo, abituando gli spettatori ad una divisione della visione, ad una parcellizzazione che si adegua ai ritmi quotidiani e lavorativi. “Incastrare” la visione di una puntata di una serie televisiva mentre si cucina o si pranza, significa – necessariamente – cedere ad un’approssimazione. Significa, quindi, perdere dettagli, ascoltare distrattamente dialoghi e suoni, (intra)vedere personaggi. Questa continua sottrazione, paradossalmente, non scalfisce il risultato “finale”. Il prodotto viene, in qualche modo, compreso; quello che si perde non è essenziale, può essere raccontato da un amico, o può essere sostituito da altro. Ma se non si ha consapevolezza di cosa si sostituisce, qual è il dettaglio – se esiste – realmente irrinunciabile?
«Il mio atteggiamento quando faccio un film è che una volta che l’ho finito, diventa il tuo film», ha riferito – ancora – Lav Diaz in un’intervista, riferendosi a Butterflies Have No Memories. Ad oggi, gli spettatori vogliono “appropriarsi” – e quindi abitare il Cinema – o si accontentano di “quello che resta”? È ancora in vita la volontà di osservare, registrare e raccontare un film sviluppando un proprio punto di vista (critico?) e organizzando la visione attraverso una stratificazione e moltiplicazione di altri punti di vista esterni ed estranei?
«Laggiù in fondo sta la morte, ma niente paura. Afferra l’orologio con una mano, prendi con due dita la rotellina della corda, falla girare dolcemente. Adesso si apre un altro periodo, gli alberi dispiegano le loro foglie, le barche corrono le loro regate, il tempo come un ventaglio si va riempiendo di se stesso. […] Che vuoi di più, che vuoi di più? Legalo presto al tuo polso, lascialo battere libero, fa di tutto per imitarlo», recita il Preambolo alle istruzioni per caricare l’orologio, scritto da Julio Cortázar. Bisognerebbe, allora, chiedersi come sia possibile – oggi – che la contemplazione possa coesistere con una differente percezione del Tempo scaturita dal nuovo “modello” di visione e di intrattenimento.