“MIA”, IVANO DE MATTEO: DI NOME E DI FATTO

0

di Mariantonietta Losanno 

%name “MIA”, IVANO DE MATTEO: DI NOME E DI FATTOUn uomo, una donna. In questo caso, un padre, una figlia. Con due età diverse ma anche due “ruoli”; è al padre, infatti, che è affidato il compito di proteggere la figlia, e di prevedere (grazie alla differente maturità) possibili pericoli. È il padre che stabilisce regole (chiaramente senza doverle imporre, immaginando un sano equilibrio familiare) e che sorveglia – senza controllare morbosamente – che la figlia cresca con degli insegnamenti giusti.

Quello tra Sergio (Edoardo Leo) e Mia (Greta Gasbarri, al suo esordio sul grande schermo) è sicuramente un rapporto in cui si agisce con buon senso; entrambi sono in grado di chiedere scusa quando eccedono, di confrontarsi e di capirsi. La maggior parte delle volte, come in tutte le famiglie. Mia va d’accordo anche con sua madre (Milena Mancini), che le lascia spazi di autonomia di azione e di pensiero. È l’incontro con Marco (Riccardo Mandolini), un ragazzo ventenne, ad interrompere il percorso – sano – di maturazione. Sin dalle prime scene, Ivano De Matteo (al suo settimo lungometraggio) incentra la narrazione su due tematiche: il possesso e i luoghi comuni. Mia non è solo il nome della giovane quindicenne, è anche la rappresentazione di un’idea di appartenenza continuamente ribadita. “È mia, non più tua”, dice Marco a Sergio quando – ormai – pensa di aver acquisito il diritto di rivendicare il suo dominio. Il nome della ragazza, poi, viene ripetuto incessantemente, come a voler insistere sull’idea, in parte anche esasperandola.

I luoghi comuni, invece, sono lo strumento di cui si serve il regista per sviluppare il racconto; ci sono i tossicodipendenti che – secondo l’immaginario classico – hanno uno stile riconoscibile e vengono trattati come tali da tutti, ci sono le frasi (ancora tipiche, purtroppo) che attribuiscono ad un eccessivo trucco o ad un vestito scollato una certa connotazione. C’è il ragazzino ricco e viziato che non merita la benché minima redenzione e che si appella alla sua forza e al consenso forzato. C’è la madre che prova a giustificare alcuni atteggiamenti e il padre con i modi più duri, in alcuni casi aggressivi. Tutti questi atteggiamenti sono conosciuti da tutti, sono racconti che vanno avanti da chissà quanti anni. Alcuni sono stati messi in discussione, in parte superati; altri sono ancora in vita, alimentati da una mentalità che sembra essersi evoluta in una direzione ancora più sbagliata. All’inizio sembra che il regista voglia ridurre tutto a questi cliché; la narrazione, infatti, procede per quasi più della metà appoggiandosi e adeguandosi agli stessi ragionamenti che mette in scena. Ad un certo punto, poi, emerge in modo chiaro – e sicuramente violento – l’intento di De Matteo, che quei luoghi comuni punta a distruggerli proprio mostrandoli nella loro più comune realtà.

%name “MIA”, IVANO DE MATTEO: DI NOME E DI FATTONella scuola, nei momenti di socialità più frequenti, e nelle immagini che (ri)conosciamo fin troppo bene. “Fai un’altra ripassata di rossetto, che non si vede bene”, dice Sergio a Mia, come a voler confermare uno scenario tossico, in cui si dà ragione a chi crede di poter attribuire certi appellativi a chi si trucca “troppo”. Eppure, quella frase – anzi, quelle frasi – sono uno strumento che il regista utilizza per far emergere gli aspetti più veri e pericolosi della questione. Allo spettatore viene mostrata la realtà, quella più dura e senza compromessi. Una realtà che coinvolge e responsabilizza, che per gli ultimi quaranta minuti del film non dà un istante di tregua. “Sporcare” (uno dei termini utilizzati da Sergio) sembra essere l’unico modo per ripulire. Sporcarsi con un rossetto, sporcarsi le mani vendicandosi, sporcare l’immagine di una persona. In quanti modi si può declinare questa parola? E quanti modi esistono, invece, per ripulire? Forse per la vendetta non molti, e soprattutto per una violenza così svilente da essere impossibile da immaginare. Eppure sulla pelle si avverte il dolore, la rabbia e l’impotenza, nonostante nessuno possa assumersi la presunzione di comprenderne la gravità.