di Mariantonietta Losanno
Per la sua seconda regia Maha Haj prende le distanze da un cinema dichiaratamente politico e anche da un dibattito volto ad attribuire all’eutanasia il valore di una condanna o di una salvezza. Risolve le questioni servendosi di personaggi fortemente caratterizzati (due uomini, le donne restano più sullo sfondo), senza portare all’estremo concetti che – per natura – comportano prese di posizioni antitetiche. Come vita e morte, o giusto e sbagliato. Li affronta con rispetto, ad una distanza tale da consentire una partecipazione empatica, ma mai ponendosi in una posizione giudicante. Questo approccio ci rimanda al cinema di Kiarostami che, ne Il sapore della ciliegia, fa luce sul dolore per affrontarlo, non per renderlo assoluto; si sofferma sulla bellezza di una serie di piccole cose inserite in un contesto adeguato ad un’idea “minimalista”. Il tempo stesso sembra “piccolo”, nonostante gli spazi, perché scorre lentamente, lasciando che i pensieri si (ri)ordino. Ed è il tempo uno degli elementi su cui si concentra Maha Haj nel suo Mediterranean Fever.
Ci sono due vite: quella di Waleed, che prova a scrivere un romanzo e va in terapia per la sua depressione, e quella di Jalal – suo nuovo vicino di casa – un uomo amichevole ma invadente, dedito a traffici non bene identificati. I due diventano amici in modo un po’ forzato ma (sorprendentemente) si trasformano l’uno nella salvezza dell’altro. Waleed vorrebbe morire in un modo degno e parla con frustrazione delle possibilità che concedono altri paesi (la pellicola è ambientata ad Haifa) di ricorrere all’eutanasia, Jalal – al contrario – la vita l’aggredisce, ignorando valori morali, questioni etiche e, naturalmente, le leggi. Uno ha perso contatto con le piccole cose, l’altro le osserva da una prospettiva opposta, elevando i loro significati. Proprio mettere quelle piccole cose in discussione le eleva, insistendo sulla “banalità” della loro presenza nel mondo: cambiano connotazione e diventano necessarie, persino essenziali. Felice/infelice, così come realizzazione/fallimento: più si ripete una parola, più diventa l’equivalente del suo contrario, come se la ripetizione svelasse il trucco e mostrasse una – o più – verità.
Maha Haj affronta il problema dell’identità palestinese attraverso il legame tra i due uomini, mostrando di avere le risorse sufficienti per reggere un discorso che lega politica ed etica ad un’ironia e ad un “pensiero gentile” che infonde coraggio e saggezza. È come se fosse una “febbre” quella che Jalal trasmette a Waleed, che diventa un nuovo modo (non per forza definitivo, anche solo momentaneo) di pensare e che può presentarsi anche come un nuovo modo di guardare il mondo. Un concetto tanto semplice quanto difficile da attuare.
Mediterranean Fever, miglior sceneggiatura a Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022, è una riflessione sulla finitezza, sul dramma del saper vivere proposto con un’impronta personale supportata da un’ironia cechoviana che esalta il privilegiato egoismo e il libero lamento. C’è, poi, l’inquietudine delicata della questione palestinese vissuta da cittadini arabi nello Stato d’Israele, ma non si trasforma in una discussione (inesauribile) sui massimi sistemi, né assume un tono incattivito, e tantomeno “bellico”. “Sono una regista che ha uno stato d’animo generalmente malinconico che si mescola ad un casuale senso dell’umorismo. Questo mi ha portato a scrivere una dramedy un po’ thriller su Waleed, un aspirante scrittore quarantenne che soffre di depressione cronica e con cui ho portato all’estremo le mie opinioni e i miei pensieri quotidiani”, ha raccontato Maha Haj. Il sentimento della fine cambia forma, le parole acquisiscono un altro suono. Si viene colpiti da un’immagine della “bellezza” e della dignità umana e si concretizza una discriminazione tra il futile e l’essenziale. Si ridisegnano i tratti, si resiste alla disperazione, non ci si ostina.