– di Vincenzo D’Anna* –
In molti italiani è ancora viva l’eredità genetica degli antichi Greci che, a partire dell’ottavo secolo a.C., colonizzarono gran parte del nostro Meridione, a partire proprio dalla Campania, prima con Ischia, poi con Cuma. È quell’indole arguta che poggia sull’intelligenza prensile e sulla curiosità: un mix che ha creato il prototipo antropologico che ci siamo poi trascinati nel corso dei secoli. Una qualità “affinata” dalle innumerevoli occupazioni di popoli stranieri e che certamente si è rivelata utile all’adattamento. Comunque sia il risultato non cambia: ci ritroviamo, infatti, innanzi un popolo sempre proteso ad affinare la scaltrezza e l’opportunismo, elementi tipici e vicarianti della conoscenza e della morale. A testimonianza di quanto affermato non mancano esempi storici, una per tutti è l’affermazione di Winston Churchill: “mi piacciono gli italiani, vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra”. Una triste ironia sul nostro popolo che, ahinoi, ha coinciso anche con l’opinione comune di molte diplomazie europee del secolo scorso. In fondo, perché negarlo? Quando mai abbiamo terminato una guerra con lo stesso alleato con il quale l’avevamo iniziata? Se quindi la furbizia ed il doppio gioco sono quasi da considerarsi eredità divenute consustanziali all’italico modo di agire, oserei dire geneticamente determinate, non c’è da meravigliarsi che la politica italiana, certamente quella del terzo millennio, sia rimasta improntata a comportamenti ondivaghi, una volta privata dei luoghi di elaborazione della politica stessa, ossia di quelle forme culturali, pluralistiche e democratiche chiamate partiti. Ora, se la politica italiana fosse stata chiamata ad indicare un padre fondatore, un esempio calzante del suo agire, avrebbe dovuto essere, in tal senso, Ulisse, re di Itaca, l’Odisseo di cui narra Omero, inventore del famoso stratagemma del Cavallo di Troia, per mezzo del quale gli Achei espugnarono le invitte mura di Troia. E tuttavia essendo la politica l’arte che utilizza quello di cui dispone, in termini di materiale umano, per adempiere al compito affidatogli di governare la società, essa non può che tirare avanti anche poggiando su basi abbastanza dequalificate ed approssimative. Un esempio di scuola di questa prerogativa può essere indicato nella circostanza che ha visto gli europarlamentari italiani astenersi sull’approvazione del patto di stabilità già concordato con l’Unione Europea sulle politiche di bilancio per ridurre il debito statale, per ricondurre il medesimo entro rapporti accettabili con il prodotto interno lordo della singola nazione. In breve: agganciare e mantenere un rapporto adeguato tra la spesa statale, il debito pubblico e la produzione di ricchezza oltre che definire i meccanismi di un crono-programma per restituire i debiti contratti dal nostro Paese con Bruxelles. Insomma ci siamo risvegliati dal sogno di poter continuare ad accumulare debiti e di procrastinarne sine die il rimborso. Abbiamo più volte ripetuto, per quel che possa valere, che di qualsiasi colore politico siano i governi assurti ai vertici dello Stato, la gestione economico finanziaria, e quella legislativa che li sostiene, sono pressoché identiche nel loro complesso: governare utilizzando la leva del debito statale per finanziare l’operato dell’esecutivo e contestualmente il consenso elettorale che ne deriva. Così il teatrino è andato in scena: gli eurodeputati italiani, da destra a sinistra, unici tra tutte le delegazioni dei 27 Stati membri, hanno negato il via libera al nuovo patto di stabilità. Il centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) si è astenuto, così come il Partito democratico; il Movimento 5 stelle e i Verdi hanno votato contro. A pesare sulla decisione anche il buco di 230 miliardi lasciato da Giuseppe Conte col Superbonus che ha riguardato solo il quattro percento (!!) del patrimonio edilizio. Incoerenza a parte (fino a poco tempo fa il Pd chiedeva addirittura l’estensione del superbonus), senza bisogno che il nuovo patto di stabilità entrasse in vigore, è evidente che persino la classe politica italiana si è resa conto che, buono o cattivo, il debito va ripagato, e che il debito di ieri è un vincolo alla politica di bilancio di oggi. Peraltro il 2050 non sembra tanto lontano per restituire gran parte dei soldi del PNRR oltre a quelli già dovuti ed ai 2.700 miliardi del debito statale (quasi cento miliardi di interessi passivi all’anno) fin qui accumulati. Ma in Italia, si sa, di tutto e di tutti si discute polemicamente salvo del disastro economico di un paese fallito. A Bruxelles mandarono dei “magliari”, ossia quella specie di italici furbastri venditori di stoffe che in Europa turlupinavano gli acquirenti vendendo loro roba di scarsa qualità con stratagemmi e falsi incentivi. Adesso bisognerebbe almeno escluderli dalle liste quei parlamentari, per non rinnovare in futuro lo spettacolo della scaltrezza e del doppio gioco, eredi di Ulisse, l’uomo dal multiforme ingegno.