di Mariantonietta Losanno
Vienna 1906. Hanna Leitner deve mettersi in posa (“dandosi un contegno”, su invito del marito) per una fotografia di famiglia. Ma le manca il respiro, non riesce a tollerare quello stato di oppressione. L’unica via possibile è la fuga, verso Monte Verità, nome attribuito alla comunità che, ad Ascona, si riunisce sul monte Monescia. Lascia, allora, le sue figlie e il suo compagno che – costantemente – la umilia e svilisce la sua persona, relegandola al solo ruolo di madre e negandole il diritto di esercitare quella che per lui è una professione “vera” e per lei “solo” una passione: la fotografia.
“Indugio e aspetto, mi abbandono alla libertà”: queste sono le parole che incoraggiano Hanna a scappare – cercando rifugio – a Monte Verità. Questo luogo, ad oggi un Centro congressuale e culturale all’avanguardia gestito dall’omonima Fondazione, nel diciannovesimo secolo e nei primi anni del ventesimo è diventata una meta privilegiata per personalità anticonvenzionali, attratte dall’ideale (utopico?) di una società – contrapposta a quella “malata”, cioè urbanizzata e industrializzata – capace di ergersi a luogo di riferimento per chiunque cercasse il significato profondo delle cose. Per tutti coloro che desideravano mettere a fuoco – come se si trattasse di una fotografia – concetti complessi come la libertà, la sessualità, la consapevolezza di se stessi. Mettendo in discussione lo stato delle cose, lasciando la “presa” e abbandonandosi ad ogni sensazione nuova, mai giudicata dagli altri. Tra quelli che vi hanno soggiornato Jung, Erich Maria Remarque, Kafka, e anche il premio Nobel Hermann Hesse, che, su quel “viaggio”, ha scritto: “Vagheggio allora che, sia anche nel dolore, /io e il mio pellegrinaggio sulla terra /ancora una volta conosciamo i giorni /della pienezza pura”.
È proprio la pienezza pura quella che (ri)trova Hanna, imparando, prima di tutto, a respirare. Ad avere controllo del suo respiro, ad avere rispetto delle sue paure, a difendere la sua verità. Non c’è più nulla che la trattiene, né le violenze del marito (concepite da lui come un “diritto”), né le ansie relative all’inadeguatezza del suo essere madre. Mettendo a fuoco, ogni cosa appare più nitida, dai contorni definiti. Il fascino di quel luogo “anarchico” (inteso, essenzialmente, come libero) si riesce a percepire dagli spazi, dalla natura “che si muove”. Hanna scopre qualcosa di inaspettato – se stessa – e lo fa nel modo più naturale possibile, attraverso il silenzio. Respirando, appropriandosi di una libertà negata a lungo. Nei ripetuti confronti con il suo psicoanalista Otto Gross (che ricordano quelli raccontati da Cronenberg in A Dangerous Method), fermo oppositore delle teorie di Freud, riesce ad ascoltarsi e ad avere un’idea chiara del proprio cammino. Stefan Jäger si serve di un personaggio di finzione (una donna con la passione per la fotografia, a Monte Verità, non è mai esistita) per la costruzione della sua narrazione; indaga, così, la condizione femminile del passato ricollegandosi ad oggi. Evita di insistere troppo sulla questione – esasperandola – rischiando, però, di rimanere in superficie e non in profondità. Si avvale dello storico Andreas Schwab, prezioso consulente che ha permesso alla narrazione di mantenere oggettività, nonostante gli elementi di finzione. Molti aspetti di Monte Verità restano impenetrabili, ma la cosa più importante resta l’“esperienza del mondo”. È proprio su questo aspetto che Alejandro Jodorowsky ha insistito quando è stato ospite (lo scorso aprile) degli Eventi Letterari Monte Verità: “Abbiamo completamente perduto l’esperienza del mondo. Eppure, cos’è la cosa più importante? La vita, il vivere. […] La nostra vita esperienziale, non quella delle nostre convinzioni, poiché queste non rappresentano la realtà”.