di Mariantonietta Losanno
Tratto dal romanzo Io sono leggenda di Richard Matheson (che due anni dopo sarà adattato da Boris Sagal, 1975: Occhi bianchi sul pianeta terra con Charlton Heston), L’ultimo uomo della Terra (1964) è diretto – a seconda delle fonti – da Ubaldo Ragona o da Sidney Salkow. La pellicola fa di necessità virtù: lo scarso budget è dissimulato con l’ambientazione in una Roma spettrale (l’EUR) e, per certi versi, anticipa le atmosfere di La notte dei morti viventi di Romero. Vincent Price è una delle tante star un po’ in disarmo in patria che viene a girare in Italia (pensiamo a Joseph Cotten, Richard Conte) anche se pure in America frequentava il b-movie con gli adattamenti da Poe di Roger Corman. Quella che rappresentano Ubaldo Ragona o Sidney Salkow è una pandemia che trasforma gli uomini in vampiri. Morgan, armato di paletti di legno, gira per la città e individua i superstiti, deboli e ridotti a zombie, per eliminarli e bruciare i loro corpi. Riempie la casa di specchi e di aglio, tenta la comunicazione radio, si rifugia nei ricordi del passato, recuperando le persone amate.
Essere padroni del mondo, come se fosse una condanna, più che una missione: il Dott. Robert Morgan è una sorta di eletto in un universo di dissoluzione e desolazione. La sua condizione lo porta a doversi difendere, a controllare l’ira, a risparmiare energie necessarie. Si scatena, cioè, un brutale istinto di sopravvivenza che fa prevalere solo la ragione, l’egoismo e la sopraffazione. In questo incattivirsi si può riconoscere – senz’altro – un atteggiamento che ha prevalso durante la pandemia da Covid-19. È uno scenario, infatti, non troppo distopico quello messo in scena ne L’ultimo uomo della Terra, che ci riporta ad una ripetizione che conosciamo, quella in cui si sono susseguite le stesse giornate per mesi, scatenando reazioni differenti a seconda del singolo. E a seconda – soprattutto – delle differenti privazioni a cui si è stati sottoposti.
La cecità – che è il primo sintomo che colpisce – e l’essere un unico uomo privilegiato ad aver avuto in eredità il mondo, ci riportano ad un altro romanzo, Cecità, del premio Nobel José Saramago, all’interno di uno scenario (ormai) fin troppo ipotizzabile. Un contesto di abbrutimento, crudeltà, degradazione. Sia la malattia che il contesto distopico sono elementi funzionali a far emergere dinamiche radicate nella società, spesso latenti. Non si tratta più – ad oggi – di un futuro ipotetico: la pandemia, infatti, entrando (prepotentemente) nelle nostre vite, è diventata prassi, quotidianità e infine storia. E L’ultimo uomo della Terra (una delle vere perle del gotico italiano, a cui è possibile – anche – accostare I vampiri di Riccardo Freda), è la rappresentazione di un mondo che, seppur rovesciato, appare molto familiare. Il tempo si dilata, facendo sì che tre anni (quelli che ha vissuto Morgan) diventino più lunghi di un secolo, suggerendo una riflessione sul Tempo, sulle vicende e sulle condizioni che rendono possibile provare “il sentimento della durata”, intesa come continuità legata al proprio io, vissuto come qualcosa di più che un insieme scoordinato di desideri e ricordi. La rievocazione delle esperienze unisce con il mondo, con le cose e con gli altri, sia pure in luoghi e maniere diverse. Ed è per questo che Morgan si affida tanto al suo flusso di pensieri, in cui riaffiorano i momenti precedenti alla perdita di umanità. Come si può restituire ad una vita possibile un uomo privo di umanità? Quale altro destino se non ridursi ad un mostro?