di Mariantonietta Losanno
Sono i nipoti ad iniziare il recupero delle memorie, raccontando delle domeniche in famiglia, del “nonno delle feste”, quello che – come in teatro – andava in scena anche in cucina. Due riti sacri e severi, due palchi differenti, conditi con semplicità, senza eccessi.
Come si racconta una vita? Anzi, come se ne raccontano due? Quella dell’uomo e quella dell’artista, accomunate da una passione necessaria, essenziale alle due vite stesse. Bisogna, innanzitutto, fare attenzione alle parole, al loro senso esatto, purificandole da tutta la loro possibile ambiguità . Eduardo ci teneva alle parole, come agli affetti. “Era severo, non cattivo”, “Parlava della difficoltà di comunicare, non dell’ incomunicabilità”, dicono su di lui amici, colleghi, docenti. Potenzialmente chiunque può parlare di Eduardo De Filippo, di quello che ha rappresentato per la gente, di quello che ha mosso a Napoli per i ragazzi dei quartieri degradati, di quello che ha dato al Teatro, riuscendo a “non tagliare mai le teste, ma a farle pensare”, senza sfiorare mai l’intento di trasformarlo in un’azione politica. Non è facile descrivere con esattezza la sua personalità, bisogna affidarsi agli indizi che lui stesso – con intelligenza – ha lasciato, ai ricordi sparsi, eppure precisi, nitidi. Nel restituire la sua immagine (abbandonando, naturalmente, qualsiasi finalità di consacrazione), è essenziale – anche – parlare della morte e con la morte. Del dolore che ha segnato talmente Eduardo che, nel suo discorso a Taormina, durante una premiazione, un mese prima di morire, lo impegnava a chiedersi se il cuore battesse ancora. Se ne avesse ancora la forza. E sì, batte, anche quando si arriva alla fine.
Diventa ancora più alta, oggi, la voce di Eduardo De Filippo, nato il 24 maggio 1900 con uno scopo definito quando ancora non poteva esserne consapevole: fare l’attore. Perché, forse, non avrebbe vissuto se non avesse fatto l’attore. E non avrebbe saputo risolvere la vita con una battuta. Ce ne sono, infatti, tante di frasi che sono diventate di uso comune. Sono di tutti, perché parlano una lingua universale e sono a disposizione di chiunque abbia bisogno di farvi ricorso. Il Tempo non ha distorto i ricordi dei suoi nipoti, né ha tentato di abbellire quelli più sofferti. A parlare sono Tommaso, Matteo e Luisella, figli di Luca, scomparso nel 2015. Raccontano la sua rivoluzione, le sue cinquantasette commedie, l’amore verso i suoi personaggi femminili, la sua curiosità che era un’arma di conoscenza. Eduardo sapeva tenere tutti in sospeso, non lasciandosi mai definire completamente. Né tantomeno etichettare. Sapeva difendersi, era capace di prendere posizione, facendo presente le sue idee, non le sue ideologie.
Nel documentario diretto da Didi Gnocchi e Michele Mally – e realizzato in occasione dei centoventi anni dalla sua nascita – c’è la famiglia di Eduardo, il suo teatro, le menti che lo hanno ispirato. C’è Pier Paolo Pasolini, colpevole di aver rappresentato, nell’Italia dell’ortodossia generalizzata, una categoria di persone messa al bando dallo strapotere dell’industria culturale: quella del “rifiuto”. Rifiuto della connivenza con una classe dirigente profondamente ottusa, rifiuto di scendere a patti con qualsiasi istituzione, tanto di “destra” come di “sinistra”, rifiuto di abbassare la propria diversità culturale, morale e sessuale ad un’ennesima etichetta. Dinieghi che Eduardo condivide. Lui che era riuscito a sviluppare la sua personalità sin da subito, nascendo “vecchio”. Anzi, per Eduardo “l’uomo nasce vecchio, e poi pian piano diventa giovane”. Un po’ come dire che si potrebbe “vivere al contrario”, come suggerisce Woody Allen, iniziando con la morte.
È tutto nitido e messo a fuoco: viene immortalato sia Eduardo che la sua anima curiosa e reattiva. Il suo cuore tremante, la sua saggezza, il suo desiderio costante di esercitarsi nell’arte impossibile di capire – e poi raccontare – la vita.