di Mariantonietta Losanno
“Era stato solo un attimo di follia”, ha scritto Patrick McGrath riferendosi alla pericolosità del legame tra Stella ed Edgar. Come se fosse un raptus, un unico e circoscritto momento in cui si perde lucidità. Possibile che sia così “facile”? Possibile che la follia si possa riassumere in una semplice – e banale – definizione di impulso improvviso che spinge a comportamenti sconsiderati?
Patrick McMurphy (Jack Nicholson) finisce in un ospedale psichiatrico per essere “valutato”, come conseguenza di alcune condotte criminose. Non è affetto da alcuna patologia mentale. È vivace, intelligente e, soprattutto, ribelle ed incapace di sottostare a delle regole. Si impone nell’istituto (dopo un primo periodo di insofferenza) come “leader”, creando uno spirito di cooperazione ma attirando anche il disprezzo della capo infermiera Ratched, che ha un’impostazione decisamente rigida. Non è un essere umano, ma un automa. Non è empatia né comprensiva, ma distante (fisicamente e psicologicamente) dai suoi pazienti. Ed è persino più cattiva del Sergente Hartman. Però, la sua è una cattiveria che fonda le sue radici nella convinzione dell’infallibilità sei propri metodi. Randle sovverte tutto. Induce gli internati a protestare, li porta a fare una gira, fa scoprire loro un’altra fuori da quel contesto. Così facendo, si inimica molte persone e ne subisce le conseguenze.
Il “nido del cuculo” è espressione del gergo americano per indicare i manicomi. Come potrebbe essere un manicomio il nido di un cuculo? Ma, soprattutto, come può essere definito “nido” proprio per chi, paradossalmente, un nido non ce l’ha? E, ancora, “qualcuno” chi è? Può essere chiunque, non ci si riferisce necessariamente a un paziente. Quel “qualcuno” può essere uno di noi. Può essere un individuo che non ha perso di vista i riferimenti e non ha radici solide a cui affidarsi.
Quel “qualcuno” è tanto un singolo soggetto, tanto un’idea di “gruppo”; è difficile, infatti, pensare che oggi esista un concetto di libertà individuale. L’idea di libertà che viene “urlata” è universale. “Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non come i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita”, ha scritto Alda Merini. Può essere il contesto ad “etichettare” – come afferma la teoria del sociologo Howard Becker – il soggetto come “malato di mente”? Può essere il manicomio un luogo dove vengono “allevati” gli individui ad aderire a quell’immagine che hanno imposto loro? Sembra non ci sia altro da fare se non obbedire.
Con ben cinque premi Oscar vinti nelle categorie principali, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” offre una visione oscura del sistema psichiatrico americano, è un urlo di disperazione che, più che concentrarsi sul concetto di follia, si focalizza su quello di “evasione” da una condizione disumana (e dal suo inevitabile tracollo). Jack Nicholson, con la sua recitazione nevrotica e sopra le righe e la sua incontenibile mimica facciale, si oppone alla fissità e alla severità dell’infermiera attraverso un gioco spietato di sguardi. Il regista dirige con sobrietà rappresentando “tutta la vita” in un film. Tutta la vita perché in “Qualcuno volò sul nido del cuculo” c’è tutto. C’è l’amicizia, l’amore, il desiderio di libertà, la progressiva perdita di controllo della propria persona, la sofferenza, la sconfitta. Tutto questo ci rende umani.