di Mariantonietta Losanno
Che pericolo parlare di Jodorowsky. Psicomagia, surrealismo e una miriade di provocazioni e idee malsane: il termine più appropriato, sintetico e caratterizzante è la poliedricità. Come riuscire a capire di cosa stiamo parlando? Jodorowsky attraversa l’arte in continua rivoluzione. È un’artista inesauribile: attore, regista, scrittore, disegnatore, lettore di tarocchi. La sua vita è paragonabile a una performance artistica lunga e intensa come la sua esistenza. Entrare nella mente di Alejandro Jodorowsky significa entrare nella sua mente, scoprire la sua personale visione del mondo e dell’uomo. Significa entrare in contatto con uno stile registico imprevedibile, surreale e estremamente simbolico.
“La montagna sacra” è una parabola storica. Si apre con una scena di iniziazione quasi a preparare lo spettatore (o ad avvertirlo del “pericolo”) al clima misterioso in cui si dovrà trovare per circa due ore. Bisogna compiere un grande sforzo per comprendere a fondo lo sviluppo e le ragioni. Volendo individuare una struttura del film, la trama può essere suddivisa nei classici tre atti, sebbene le regole tradizionali della narrazione vengano completamente sovvertite. La prima parte è come un prologo dove Jodorowsky ci mostra il progressivo superamento dalla propria condizione di dissoluzione di un personaggio chiamato “il ladro” che assomiglia molto a Gesù Cristo. Dopo una serie di disavventure il ladro raggiunge una torre nel quale risiede un alchimista, interpretato da Jodorowsky stesso; nella terza parte del film l’alchimista introduce al ladro alcune delle figure chiave che lo accompagneranno nel viaggio verso la cosiddetta montagna sacra, un luogo che potrà garantire loro l’illuminazione spirituale. Una minima divisione dell’opera è essenziale per riuscire a trovare un senso. Quel tipo di violenza che mette in scena Jodorowsky può causare una sorta di isteria nello spettatore, perché si sente privato della possibilità di impossessarsi mentalmente dell’opera.
“La montagna sacra” dimostra la forza della rappresentazione di Jodorowsky. Le immagini simboliche proposte sono talmente tante che risulta praticamente impossibile comprendere tutto il film dopo una sola visione. E queste immagini sono immagini che restano, che non se ne vanno così facilmente. Misticismo, alchimia, religione e una denuncia fortissima nei confronti della società moderna: Jodorowsky nega la possibilità di una logica visiva annullando le strutture tradizionali della narrazione. L’esperienza cinematografica si trasforma, allora, in un viaggio onirico e inconscio. È inevitabile che si perda il controllo, dovendo accettare l’impossibilità di ottenere una visione chiarificatrice dell’opera. Si può tentare di decodificare ogni singolo simbolo, ma non di comprendere la pellicola nella sua essenza più profonda; al posto che cercare un significato, è più facile accettare una spiritualità attraverso gli stati emotivi inconsci trasmessi dagli innumerevoli simboli e colori. Jodorowsky ci mostra la bellezza della sua “verità”: un insieme di numeri, lettere, figure dei tarocchi e allegorie che moltiplicano il senso di ogni azione. Realizzando una critica sociale, politica e religiosa, il regista parla della “violenza nell’arte”. È come se la violenza servisse ad arrivare ad un cambiamento. Il cinema per Jodorowsky diventa, allora, una missione.