– di Vincenzo D’Anna* –
Abbiamo ripetuto, fino alla noia, che in Italia il capitalismo è destinato a soccombere innanzi allo statalismo, così come il liberalismo si rivela un mero espediente dialettico al cospetto del socialismo di Stato. Quello, per intenderci, dei monopoli e delle privative nei cosiddetti settori strategici, nonché del puntuale ripiano dei debiti di gestione accumulati dai servizi pubblici statali. Un capitalismo spurio, spesso assistito dallo Stato stesso sottoforma di agevolazioni, come la cassa integrazione guadagni, le rottamazioni, gli sgravi contributivi e fiscali. Insomma: una serie di ammortizzatori che sostanzialmente hanno consentito, al simulacro d’impresa, di privatizzare gli utili e di rendere pubbliche le perdite. Un gioco tanto vecchio quanto redditizio, messo in campo dagli imprenditori ammanigliati col potere politico, un ricatto volto mantenere i livelli di occupazione. Insomma fare giustizia di ogni principio imprenditoriale oltre che morale. Un sistema nel quale lo Stato assiste impassibile al dispendio dei soldi dei contribuenti, dilapidati nelle più disparate circostanze dalle aziende decotte e da quelle in difficoltà, quest’ultime “calate” nell’eterna necessità di dover ripianare il proprio deficit. Di converso il capitalismo, lungi dall’essere correttamente inteso ed applicato nel Belpaese, ha goduto di sostegno statale, soprattutto per quanto concerne le imprese di grandi dimensioni e ad elevato numero di occupati. La logica assistenziale e clientelare è sempre la stessa: acquisire la benevolenza ed il voto di coloro che, grazie all’intervento riparatore dello Stato, sono stati tratti in salvo dal fallimento (proprietari o dipendenti che siano). La rottura della regola di mercato oltre che iniqua – perché lascia tanti altri in difficoltà – va intesa come deleteria per l’intero sistema produttivo – imprenditoriale. Se l’arbitro, infatti, si mette a parteggiare per uno dei competitori è l’intera gara ad essere falsata in danno dei più bravi e capaci. Una logica perversa, quella descritta, che ha puntualmente favorito i grandi gruppi industriali e tra questi chi più di tutti ha rappresentato il capitalismo italiano nel mondo, ossia la Fiat della famiglia Agnelli. Alla pari di quest’ultima possono ricordarsi molte altre imprese “politicizzate” vale a dire capaci di saper creare la giusta pressione sul governo, la tensione sociale e sindacale, anche attraverso l’uso sapiente dei mezzi di comunicazione. Inutile dire che come metodo di pressione ha molto funzionato anche il regime del finanziamento occulto ai partiti, che ha condizionato non poco le scelte in materia industriale e della tipologia di benefici da elargire ai benefattori-finanziatori medesimi. Tuttavia un siffatto sistema compromissorio, adottato su vasta scala ha retto per decenni, producendo quell’idea di impunità diffusa che si è rivelata poi essere la madre di ogni corruttela. Per capirci, “Tangentopoli” fu l’espressione di questo modo di fare, in un contesto in cui lo Stato svendeva le sue imprese indebitate, ricomprandole successivamente a prezzo molto più alto per impedire che una sana politica concorrenziale in quel ambito industriale potesse mettere fuori gioco il sistema inefficiente e clientelare delle imprese a partecipazione statale. Fu appunto questa la vicenda Montedison, quella dei maneggi da cui poi si originò la maxitangente per il sistema dei partiti politici negli anni ‘90 del secolo scorso. A scomparire fu solo il ceto della Prima Repubblica ed i partiti stessi ma nessun provvedimento fu mai preso a carico di quelle aziende che avevano corrotto e finanziato. Un pasticciaccio brutto e ipocrita nel quale furono scovati dei capri espiatori cui far saldare il conto e chiudere la falla. Oggi possiamo ben dire che il sistema industriale è rimasto non solo indenne ma praticamente uguale a quello che era un tempo, in termini di limitata autonomia imprenditoriale. Il che ci ha riportati alle vecchie logiche dell’assistenzialismo statale. Meglio ancora: alla pretesa, per taluni gruppi, di poter esercitare le dovute pressioni per ottenere vantaggi ed agevolazioni. È questo il caso di Stellantis la grande impresa nata dalla fusione tra i gruppi Fiat Chrysler Automobiles e PSA, con sede legale ad Amsterdam. La società è presieduta da John Elkann, nipote di Giovanni Agnelli, “l’avvocato” per eccellenza, il personaggio ritenuto, per anni, la migliore espressione del Belpaese, ambito ed invidiato, blandito ed osteggiato, osannato ed al contempo ritenuto la causa prima dei mali della classe operaia. Ma Agnelli prima di essere tale con il suo charme e le sue qualità di capitano d’industria, era un italiano con tutti i pregi ed i difetti che questo comporta inevitabilmente. Tra i difetti quelli di comprare giornali per fare da cassa di risonanza. Oggi chi gli è succeduto minaccia di trasferire in Marocco la produzione dopo aver trasferito la dirigenza e tanto altro ancora. Per il momento a Palazzo Chigi tengono botta. Magari non si faranno piegare dalla razza padrona!! Amen!