di Mariantonietta Losanno
Razionalità e tempo si annullano: la poetica dell’immagine consente di superare l’incomunicabilità della parola. Forse, bisognerebbe prepararsi per vedere un film come “Lo specchio” – e per comprenderlo nella forma e nel contenuto – ma come? Qual è la chiave per entrare nel mondo di Tarkovskij? Innanzitutto, bisogna abbandonare l’idea che ci sia un metodo valido per analizzare ogni sua opera: “L’infanzia di Ivan” o “Andrej Rublëv”, per esempio, sono – per alcuni – di più facile comprensione rispetto a “Lo specchio”. Allora come vincere quella sensazione di rabbia ed impotenza nel non sapere attribuire un segno ad ogni cosa? Lasciandosi andare. Tutto ciò che ci tormenta, che ci manca, che ci soffoca; tutto quello che ci procura nostalgia, che ci fa sentire vivi o che ci uccide, può essere trovato in un film come “Lo specchio”. È come se si potesse “vivere dentro il film”, permettendogli di farlo diventare realtà. Tarkovskij, attraverso libere digressioni, immagini oniriche e flussi di coscienza, crea una “vertigine del tempo” mettendo per la prima volta se stesso al centro di una propria opera e concentrando il suo sguardo sul proprio rapporto con la società sovietica, con le gerarchie del potere ideologico e con la propria identità di cittadino.
“Lo specchio” in cui si guarda Tarkovskij rappresenta il ritratto di un’identità smarrita. Al centro del racconto c’è Aleksei, un uomo sui quarant’anni, che – costretto a letto per una malattia – si sforza di fare un bilancio della propria vita. Pensando alla propria esistenza, intreccia il passato con il presente, la realtà con l’immaginazione. Cerca di capire cosa c’è stato di sensato, ripercorrendo con la memoria episodi della sua infanzia e sua adolescenza, alcuni accaduti realmente altri soltanto immaginati: le estati nella casa di campagna, quando il padre aveva abbandonato la sua famiglia e la madre sperava invano il suo ritorno, il che lo riporta immediatamente alla sua condizione. Vive, infatti, una situazione simile a quella vissuta dai suoi genitori: vive separato dalla moglie e ha un figlio (Ingat) che si rifiuta di vederlo (la stessa attrice impersona la madre e la moglie, e lo stesso bambino é Aleksei da piccolo e suo figlio Ignat). Ricorda, poi, l’incendio del fienile, il lavoro della madre in tipografia, la scoperta dell’arte di Leonardo da Vinci e quella del primo amore; le esercitazioni al poligono di tiro, il momentaneo ritorno del padre.
Il film non ha una trama tradizionale, ma è piuttosto un montaggio non lineare di vari momenti della vita di Aleksei. Lo spettatore viene abbandonato senza indicazioni precise: l’incapacità di comunicare deriva anche e soprattutto dalla difficoltà di conquistare una visione chiara e definita di ciò che lo circonda. Tarkovskij elabora un concetto personale di “specchio”, ossia una superficie in grado di riflettere il mondo e che consente di avere un punto di avere un punto di osservazione attento e concentrato, come una lente di ingrandimento. Il regista – attraverso il suo alter ego Aleksei – delinea un bilancio della propria esistenza intrecciando vicende del proprio passato, frammenti di verità e di menzogna e permette allo spettatore di poter fare lo stesso: la macchina da presa si muove esattamente come la nostra memoria, mostrando e omettendo alcuni ricordi, servendosi anche del cambiamento della fotografia, capace di alternare i colori al bianco e nero. Nel riflesso di Aleksei – e quindi di Tarkovskij – c’è un po’ di ognuno di noi: lo specchio in cui si guarda il regista diventa il ritratto di un’identità smarrita che cerca una redenzione riflettendo sul tempo. Il risultato, però, sono identità “scambiate”; andando alla “ricerca del tempo perduto” scaturiscono più interpretazioni della stessa esistenza. I tre momenti (i ricordi d’infanzia, la rappresentazione degli eventi storici, a detta di Tarkosvkij “vissuti e compresi”, e l’unione dei primi due) conducono a diverse soluzioni. Così come accade quando cerchiamo di ricordare qualcosa di remoto e ormai nascosto dall’incessante andare del tempo, così possono scaturire episodi frammentati – talvolta mai accaduti ma dati per vero – a cui non è facile attribuire significato. Ciò che rimane, però, non sono tanto i momenti in sé, ma le emozioni vissute: “Lo specchio” ha la forma dei sogni, in cui tanti momenti reali e irreali si mescolano fra loro. Ma, più che una storia vera e propria, Tarkovskij vuole raccontare una serie di emozioni attraverso la memoria.
“Lo specchio” (che subirà la censura sovietica che ne limiterà la distribuzione) ci permette di osservare noi stessi e i nostri ricordi: Tarkosvij regala allo spettatore una sorta di “autoanalisi” fatta di errori, scelte e cambiamenti. Si percepisce sin dall’inizio un’atmosfera criptica e, viene spontaneo, al termine della visione – e della riflessione – chiedersi se sia stato reale o immaginato. Il film trascende la sua natura cinematografica: è un’esperienza assoluta. “Lo specchio” è la storia di un uomo, ma non solo; il racconto di Aleksei diventa il pretesto per raccontare qualcosa di “superiore”: se lo spettatore ha il coraggio di “buttarsi” diventerà lui stesso il protagonista. L’errore sta proprio nel pensare che ci sia necessariamente qualcosa da svelare, da spiegare e da sottoporre al gioco interpretativo. Tarkovksij restituisce – proprio come uno specchio – un riflesso del protagonista, soffermandosi anche sulla storia (seconda guerra mondiale, guerra civile spagnola).