Il concetto di autismo rimase un aspetto sintomatologico secondario o peculiare della schizofrenia, prevalentemente legato al paziente adulto, fino al 1943, anno in cui Leo Kanner, pediatra americano di origine austriaca, scrisse sulla rivista Pathology un articolo intitolato “Disturbi autistici del contatto affettivo”. In tale articolo, alla luce di un’osservazione di undici piccoli pazienti affetti da psicosi infantile durata circa cinque anni, Kanner propose per questi casi la diagnosi di autismo infantile precoce come sindrome con qualità e caratteristiche proprie, separandola quindi dal grande gruppo delle schizofrenie. Kanner ritenne fondamentale differenziare la diagnosi delle due patologie, mantenendo centrale l’osservazione che la definizione bleueriana non fosse adatta ai bambini osservati. In primo luogo perché i sintomi della schizofrenia sono nettamente diversi da quelli dell’autismo; ad esempio i deliri e le allucinazioni costituiscono un elemento rilevante nella schizofrenia, mentre sono assenti nell’autismo. In secondo luogo nell’autismo le difficoltà del linguaggio sono differenti da quelle caratterizzanti la schizofrenia. Inoltre quando i bambini autistici crescono non diventano schizofrenici, ma adulti autistici. È interessante la spiegazione di Kanner del 1965: “Questi bambini hanno iniziato la loro esistenza senza alcuno dei segni universali di risposta infantile. Ciò viene evidenziato nei primi mesi di vita dall’assenza delle normali reazioni anticipatorie del bambino che sta per essere preso in braccio, e dal mancato adattamento della sua postura, una volta in braccio. Ma neppure si escludono dal mondo esterno. Mentre manca loro il contatto affettivo e comunicativo con le persone, sviluppano una relazione notevole e non priva di perizia con l’ambiente circostante. Possono aggrapparsi tenacemente agli oggetti, manipolarli abilmente, andare in estasi quando i giocattoli vengono mossi o fatti girare intorno a loro, e arrabbiarsi quando gli oggetti non mantengono le aspettative sulla loro performance. In effetti, si preoccupano tanto per il mondo esterno, da rimanere in allerta per controllare che ciò che li circonda resti esattamente al suo posto, e che ogni esperienza venga ripetuta nella sua totalità senza cambiare un solo passaggio o dettaglio, con un’identità fotografica e sonica totale”39. Kanner definì quindi la sindrome da lui osservata autismo precoce infantile. Con lo studio degli 11 bambini aveva considerato cinque caratteristiche nella diagnosi una innata capacità a comunicare degli stessi quale causa di tale comportamento di chiusura, “an estreme autistic aloneness” nel senso di un isolarsi mentalmente e “an anxious obsessive desire for the preservation of sameness” osservata nella ripetizione ansiogena di movimenti semplici, in elaborate routine caratterizzate da una estrema sterilità di interessi. Aveva però anche notato la presenza di “isles of hability”, quali una memoria meccanica eccellente, la capacità di ricordare strutture complesse, un ricco vocabolario. Caratteristica comune dei bambini era l’incapacità di relazionarsi all’ambiente nei modi che la loro età avrebbe richiesto, fin dai primi mesi di vita. La tendenza all’isolamento era descritta dai genitori come una ricerca continua di solitudine, un carattere eccessivamente riflessivo e introverso; dietro ciò vi è tuttavia l’incapacità di percepire segnali provenienti dall’esterno, tanto che spesso la ragione della consultazione era il sospetto di sordità. Curiosamente, tuttavia, Kanner non riteneva la sindrome autistica un “ritardo mentale”; la maggior parte dei bambini osservati possedevano un’intelligenza normale o sopra la media, nonostante i tratti di deterioramento cognitivo. Kanner credeva che le difficoltà cognitive fossero una conseguenza di quelle emozionali, quindi che la diagnosi di autismo avesse una spiegazione sociale: liberati i bambini dalle loro difficoltà relazionali, essi si sarebbero rivelati menti assolutamente brillanti41. Conclude Kanner: “Allora dobbiamo assumere che questi bambini siano venuti al mondo con una incapacità innata di formare il consueto contatto affettivo, fornito biologicamente, con le persone, proprio come altri bambini vengono al mondo con handicap fisici o intellettivi innati. Se questa assunzione è corretta, un ulteriore studio sui nostri bambini potrebbe fornirci criteri concreti sulle nozioni ancora diffuse sulle componenti costituzionali della reattività emotiva. Per questo, sembra che noi abbiamo esempi culturalmente incontaminati di disturbi autistici innati del contatto affettivo”.
La longevità di Kanner gli permise di rivisitare gli stessi undici bambini oggetto del primo lavoro del 1943 oltre trent’anni dopo, rivolgendo l’attenzione sull’evoluzione a distanza della sindrome che da lui aveva preso il nome. Purtroppo però quei soggetti non erano più bambini ripiegati su se stessi, con presunte buone potenzialità nascoste, ma gravi handicappati mentali adulti, in molti casi con elementi psicotici gravissimi. Nella maggior parte dei casi si trattava di soggetti totalmente dipendenti, con l’eccezione di pochissimi che erano autosufficienti ma con gravi disturbi delle capacità relazionali e di socializzazione.