di Mariantonietta Losanno
Cos’è più forte dell’apatia? Quale sentimento può restituire un’immagine potente, complessa e completa, della vita in un luogo in ricostruzione?
Youtie e Guiying vivono in una zona poverissima nel nord-ovest della Cina. Lui è un contadino, l’ultimo della sua famiglia ancora celibe; lei – sterile e con una disabilità – ha superato l’età considerata idonea per non avere ancora un marito. Decidono di sposarsi, tramite un matrimonio combinato. Quell’incontro forzato si trasforma in un legame solido: i due – insieme – ogni giorno combattono, si difendono, e provano a sfidare quel destino di povertà che sembra essere stato imposto. Gli sguardi persi, di soggezione ed umiliazione sui visi dei due sposi diventano sguardi di fiducia, di cura, di speranza. Imparano – insieme – a guardarsi, ad aiutarsi a vicenda e a non rassegnarsi. La somma delle loro solitudini genera un impulso di energia; le loro sofferenze non si annullano (nonostante meno per meno dia notoriamente un risultato positivo), ma trovano una collocazione in un luogo protetto, anche se – purtroppo – non molto saldo. Sono le loro emotività schive ad incontrarsi: due interlocutori che si sottraggono alla rassegnazione per parlarsi nel profondo e per provare a costruire, nonostante ogni loro tentativo venga sempre demolito. Tutte le case in cui – faticosamente – provano a vivere vengono distrutte; continuano, però, lo stesso a concimare, a falciare, ad irrigare, ad occuparsi degli animali. Si tengono stretti, persino legandosi con una corda per non scivolare via; cercano di far diventare gli spazi familiari, pur vivendo con la consapevolezza che saranno sostituiti, che non potranno stabilizzarsi lì per sempre.
Tutto inizia nella Terra, tutto cresce nella Terra: come può, poi, non ricompensare? Nella pellicola di Ruijun Li risuona una perenne ricerca di essenzialità, anche attraverso le sottrazioni. Il regista, infatti, ha scelto un vero contadino alla sua prima esperienza, Wu Renlin, nonché suo zio. Il film, poi, è stato girato nel suo villaggio natale, Huaqiangzi, nella provincia di Gansu. La maggior parte degli attori sono comuni abitanti del posto, a loro agio in quelle dinamiche di costruzione e ricostruzione. Emerge il legame simbiotico tra la terra stessa e il tempo che passa: Youtie e Guiying iniziano a prendersi cura l’una dell’altro sfidando l’indifferenza di chi non mostra interesse verso di loro, sfruttandoli, assorbendo tutto il possibile.
Youtie trova il modo di tenere ancora più stretta sua moglie, piantando un fiore su di lei, lasciandole un marchio sulla mano, come se fosse un modo per ritrovarsi sempre. Andrebbe “tenuto forte” anche quel mondo dimenticato e spesso invisibile che Ruijun Li difende; un modo di custodire che ha dimostrato anche Alice Rohrwacher nella sua “Omelia contadina”. Youtie e Guiying dimostrano di essere capaci di abitare – o riabitare – posti in cui la vita sembra sparita; si aiutano a vicenda a restituirsi dignità, ad infondersi coraggio, a resistere a quegli sfruttamenti. “Terra e polvere” è una pellicola (per certi versi anche scomoda nei confronti del governo cinese, che ha reagito censurando) che insiste sull’importanza di salvaguardare la terra in cui viviamo, a sentirne la responsabilità. “Non vivere su questa terra / come un inquilino, / o come un villeggiante stagionale. / Vivi in questo mondo / come se fosse la casa di tuo padre. / Credi al grano, alla terra, al mare, / ma prima di tutto credi all’uomo.”, ha scritto Nazim Hikmet.