di Mariantonietta Losanno
È l’alba di un giorno di fine estate nel nord-ovest rurale della Tunisia. Le braccianti sono pronte per andare a lavoro, salgono su un camioncino – dove è meglio tenersi forte – che le trasporta tutte insieme, lamentando il rumore che fanno i loro corpi e le loro voci, a guadagnare sessanta dinari tunisini (diciotto euro) per raccogliere con le mani, ad uno ad uno, i fichi. Facendo attenzione a maneggiarli, non toccandoli ripetutamente, raccogliendoli in modo preciso e veloce, senza mai spezzare i rami. Ci sono giovanissime e anziane (alcune con problemi di salute) e pochi uomini, tutti sotto la guida – o meglio, gli abusi – di un capo che sfrutta la sua posizione per ridurre la (misera) paga, sorvegliare, molestare, rimproverare, mortificare. Ci sono regole a cui sottostare e nessun diritto; per questo, i lavoratori fanno squadra, aiutandosi e proteggendosi. A volte litigano, spinti da gelosie o isterismi legati alla loro condizione di assoggettamento, poi si sostengono, andando in soccorso di una ragazza al suo primo giorno che – forse per l’eccessivo caldo – sviene. “Non è abituata a questo tipo di lavoro”, dice il capo: non è in grado di reggere ritmi disumani, né di spezzarsi la schiena come vorrebbe che tutti facessero. E gli elementi deboli vanno eliminati, così come quelli troppo sovversivi e ribelli.
“Il tuo cuore non regge”, “Sento ancora il cuore che palpita”, “Il tuo cuore lo desidera ancora”: queste frasi vengono ripetute continuamente dalle lavoratrici che, in quel microcosmo, costruiscono relazioni, non lavorano soltanto. Non ci sono né tempo né spazio, infatti, per dedicarsi altrove ai rapporti umani: quel luogo senza ore – dentro un grumo di vita – si trasforma nell’unico contesto in cui analizzare i sentimenti, in cui sperare di incontrare un amore così come lo si immagina, in cui provare a fidarsi. Nello spazio di un giorno viene rubato tempo per ritrovarsi (e spesso senza riuscire a riconoscersi), per nascondersi e confidarsi. Da un albero all’altro cambia lo scenario e si affrontano discorsi differenti, che non seguono necessariamente una traccia. Erige Sehiri, infatti, non ha voluto fornire dialoghi scritti agli attori (scelti volutamente non professionisti), ma semplicemente traiettorie dei loro personaggi. Per il resto hanno improvvisato, hanno usato le loro stesse parole, il loro modo parlare, il loro accento. Nonostante questa assoluta libertà che si concede, la regista evita di dedicarsi all’analisi di ideologie (solo accennando, ad esempio, la questione del velo), per descrivere condizioni di lavoro, aspettative future, solidarietà e antagonismi, resistenze e sottomissioni.
Quello di Sehiri, quindi, è espressione di un Cinema che più di tutto è interessato ad aderire alla realtà, esplorandola senza stereotipi, raccontandola senza retorica. Il frutto della tarda estate (il cui titolo originale è Sotto gli alberi dei fichi) è stato il film di apertura alla 32esima edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina. Emerge una paradossale contraddittorietà, tra spazio privato e pubblico, evoluzione e involuzione, libertà e asservimento. Ci si concede la possibilità di esprimersi attraverso silenzi rivelatori o confessioni impellenti, in un’alternanza tra il buio e la luce, quella che penetra tra i rami. E sono proprio i rami ad essere più di tutto protetti, mai spezzati: come se dovessero resistere, proprio come i lavoratori.
“Lo spazio all’aperto “isolato” era necessario in primo luogo perché avevo bisogno di luce. E, naturalmente, c’erano anche problemi di budget. Questo mi ha spinto a trovare una soluzione abbastanza radicale, che è stata la decisione di girare all’aperto, con luce naturale, una sola macchina da presa, nessuna attrezzatura e un solo set principale. Ciò significava che dipendevamo completamente dalla natura e dal tempo. [..] Abbiamo sfruttato al meglio ciò che la natura ci ha offerto. Ho subito capito che questi vincoli ci avrebbero spinto a fare scelte particolari. Giravamo in agosto e settembre, quando il caldo è soffocante tra le dieci del mattino e le tre del pomeriggio. Per fortuna avevamo gli alberi a proteggerci. Dovevamo anche stare attenti perché i veri lavoratori stavano raccogliendo nello stesso momento in cui stavamo girando e dovevamo rispettare il loro lavoro. Eppure, anche se avevamo uno spazio molto limitato e girare sotto gli alberi significava meno possibilità di messa in scena, avevamo comunque una sensazione di grande libertà. Ci siamo mossi sotto di loro quasi come in una grande e affollata coreografia all’interno di un perimetro ben definito”, ha raccontato la regista.
Un’idea chiara nella sua essenzialità e una messa in scena precisa e dal taglio documentaristico: Erige Sehiri si immerge nei luoghi insieme ai suoi personaggi e agli spettatori stessi, partecipi di una giornata particolare o forse di una come tante altre, in cui si lotta (talvolta soffocando) ma in cui si prova anche a rimanere in piedi, a gioire di un momento di convivialità durante un pranzo, o di fine giornata, dove ci si può togliere i vestiti da lavoro e sentirsi più a proprio agio.