di Mariantonietta Losanno
Dalva ha dodici anni, ma crede di essere una donna. Finge di pensare, vestirsi, comportarsi come una donna, forzando il suo corpo ad adeguarsi a quell’idea. Ha imparato a rispondere sembrando adulta, a relazionarsi agli altri mostrandosi matura e avvenente. Suo padre – chiamato “Lui” o Jacques, mai in altro modo – le ha insegnato a non essere una bambina; le ha costruito, cioè, un mondo intorno e le ha fornito gli strumenti per muoversi ed essere “al sicuro”.
La scena che apre il primo lungometraggio di Emmanuelle Nicot confonde: c’è una ragazzina che urla e si dimena e delle persone che provano ad aiutarla, contro le quali inveisce, con violenza, come se le stessero facendo del male. Quella ragazzina è Dalva che viene finalmente separata da suo padre. Iniziano delle indagini e, mentre viene appurata la responsabilità dell’uomo (una sorta di bestia che tiene gli occhi bassi) nei suoi confronti, viene portata in un centro di accoglienza. La sua prima reazione è la fuga: non c’è nessun altro posto dove vorrebbe stare se non la sua casa, insieme a “Lui”, l’unico capace di proteggerla.
Dalva è stata istruita a dovere: conosce le risposte giuste da dare (quando si presenta l’avvocatessa mostrandole l’intento di difenderla lei prontamente risponde “da cosa?”) e ripete – metodicamente – il suo “copione”. Il padre non le ha fatto nulla, non ci sono diritti da difendere, né eventuali pericoli. L’unico motivo reale per cui si trova in quella condizione è un errore compiuto da altri. Dalva continua a ribadirlo con una convinzione sempre più forte, mostrandosi a suo agio in un corpo da donna, che abbellisce con vestiti e trucco, come “Lui” le ha insegnato. Eppure, nonostante si sforzi per esprimersi in un linguaggio idoneo all’immagine che vuole dare di sé, quando le viene detto che il padre verrà interrogato, lei riconduce la parola a quello che fa parte della sua età: “Come a scuola?”
Nel centro di accoglienza dove viene trasferita provano a scardinare quegli insegnamenti, senza offrirle una realtà “di ripiego” – solo per convincerla – ma dandole l’occasione di relazionarsi con delle coetanee, aiutandola a sottrarsi all’obbedienza e a mettersi al riparo da quell’animalità e da quell’accanimento crudele (per quanto sia impossibile ridurre ad un termine la vicenda) in tutte le sue forme. Dalva deve sfuggire alle caratteristiche del personaggio che suo padre ha scritto per lei. Deve farlo (ri)cominciando a camminare non assumendo una postura forzata ma spontanea, come farebbe una qualsiasi altra ragazza della sua età; deve (ri)scoprire il significato delle parole (come “volgare”, che associa all’immaginario di una donna che fuma) e dei sentimenti, così complessi ed estranei da quella che è stata la sua prigione.
“Perché un padre e una figlia non possono amarsi?”, dice Dalva, ripetendo quello che Jacques le ha trasmesso fino a renderla un oggetto da manovrare a suo piacimento. La tenerezza di una ragazza di dodici anni si scontra con una violenza indicibile in un’opera che rimanda alla manipolazione messa in scena da Yorgos Lanthimos in “Dogtooth”, in cui viene rappresentata una prigione idilliaca simile a quella costruita da Emmanuelle Nicot. “L’amore secondo Dalva”, presentato in anteprima alla Settimana internazionale della critica della 75º edizione del Festival di Cannes, analizza il rapporto tra soggetto e oggetto, denunciando (senza compromessi) le condizioni abusanti in cui versano tanti minori. È una storia buia – come erano bui i tempi che ha descritto con violenza Bertolt Brecht – quella che la regista (anche sceneggiatrice per il suo primo lungometraggio) mette in scena e da cui lo spettatore vorrebbe difendersi, scappando proprio come Dalva.