di Mariantonietta Losanno
Le cose vanno fatte nel modo giusto: c’è un metodo, un criterio, una logica. E per essere fatte nel modo giusto devono ripetersi, per far sì che riescano e si realizzino. Alla stessa maniera, ci si prende cura di una persona; ci si adopera giorno per giorno, dedicando (anche piccoli) spazi e tempi, attenzioni e gesti non necessariamente di amore ma di accudimento. Presentato alla Quinzaine des Cineastes del Festival di Cannes 2023 e diretto da Filipa Reis e João Miller Guerra, Légua racconta la storia di più donne e delle loro differenze generazionali; c’è Emilia, una settantenne che si occupa da oltre quarant’anni di una abitazione nel villaggio rurale di Légua (nel nord del Portogallo), Casa da Botica; ad aiutare quest’ultima c’è Ana – la cui salute, con il tempo, inizia a cedere – e, infine, c’è sua figlia, Mónica, che prova a capire cosa fare del suo futuro. Non sempre le tre si confrontano tra di loro; spesso, dialogano in silenzio, lasciando ampi spazi di riflessione anche allo spettatore che, inevitabilmente, si adatta al ritmo lento della narrazione.
La pellicola si focalizza sul senso dell’abitare gli spazi pieni e vuoti; si concentra, cioè, sui luoghi dove apprendiamo l’intimità e impariamo ad essere umani. Viviamo in simbiosi con gli ambienti che chiamiamo casa, vi costruiamo un nostro personale rifugio, cerchiamo un antidoto alla forza del tempo. Il concetto di abitare rimanda, da un lato, alla filosofia di Gaston Bachelard e alla sua “poetica dello spazio” e, dall’altro, alla riflessione sviluppata da Kim Ki-duk in Ferro 3, che racconta la storia di un uomo che entra nelle case altrui non per svaligiarle ma per viverle nell’assenza. Rimane a “controllare”, aggiusta oggetti che non funzionano, lava la biancheria: si “prende cura” degli spazi vuoti, per far sì che non si deteriorino. Abitare non significa, allora, solo risiedere in un luogo, ma anche “starci”. Per sentire che anche quello che è vuoto, in realtà, è pieno. Di solitudine, di trascuratezza, di comunicazione. In Légua, l’attenzione è rivolta verso una serie di piccole attività quotidiane: rifare un letto (e seguire un metodo nel farlo), lavarsi facendosi aiutare quando vengono meno le forze, osservare degli oggetti che sembrano aver perso la loro utilità, ma, in realtà, “servono” solo per il fatto che esistono.
Come cornice c’è un Portogallo che si trasforma, che crea dubbi e che spinge a domandarsi qual è il posto migliore in cui vivere e come è possibile sfuggire ad un futuro precario, costruendo – invece – delle basi solide su cui fare affidamento. I discorsi, poi, cambiano in base alle differenze di età; quelli di Mónica e le sue amiche, ad esempio, sono diversi da quelli fatti da persone adulte o da genitori: cambiano le preoccupazioni, le esigenze, le responsabilità. Bisogna scegliere, allora, come vivere. A cosa – o a chi – aggrapparsi, di cosa gioire e per che cosa arrendersi. “Le cose sono fatte per essere usate”, dice Ana. Ma, a sua volta, abusare di qualcosa porta ad un danneggiamento. Appunto, è una questione di scelta. Si può decidere di invecchiare, o di vivere il momento; di concedersi “giornate speciali” in cui regalarsi un momento di felicità e godersi del buon cibo, lasciare il proprio paese per cercare un futuro diverso, senza, però, necessariamente abbandonarlo. Légua mostra una cura ed un’attenzione verso tutte queste diverse prospettive; ognuna di loro ha la sua ragione di esistere, ognuna merita di essere rivendicata e desiderata.
È un ritmo lento ma incessante quello che segue il dramma diretto da João Miller Guerra e Filipa Reis, che affronta la corsa del tempo, i limiti e le fragilità di ognuno di noi (accessibili a pochi), i cambiamenti che spaventano. Tra pensieri invisibili, gesti che acquisiscono valore dalla loro ripetizione ossessiva e legami che alleggeriscono le sofferenze, Légua si fa carico (anche) di quello che non è comunicabile e traducibile con le parole ma che è vivo, libero, sofferente. Lo spettatore percepisce la dolcezza impalpabile e il valore di una presenza che si fa assenza e di un’assenza che si fa presenza. È una pellicola da maneggiare con cura e che insegna – a sua volta – a maneggiare gli altri con cura. Si “sente” l’altro anche in modo intangibile, si ha cognizione del proprio dolore e del tempo (breve) che resta. Kim Ki-duk ce lo ha insegnato: per chi sa (ancora) guardare oltre, il peso di due persone su una bilancia può essere zero, come la somma delle loro sofferenze.