di Mariantonietta Losanno
Dalì – il personaggio, non l’uomo – potrebbe essere potenzialmente tutto. Uno scrittore, un fumettista, un pittore; una persona eccentrica, naturalmente, che non può che ricoprire un ruolo da protagonista. È così che lui stesso si racconta in un gioco televisivo nella prima scena della pellicola diretta da Mary Harron. Siamo a New York, nel 1973. Dalì vive insieme a sua moglie Gala al Ritz e, mentre ultima le tele da esporre alla prossima mostra, incontra James, un giovane stagista di una galleria, e lo sceglie come assistente personale. Un’occasione che fa invidia a tanti e che il ragazzo sfrutta per conoscere il mondo dell’arte e l’artista, imparando a distinguere le due cose. Dalì si nasconde dietro la superbia (gli viene chiesto persino se può paragonarsi a Dio e lui, prontamente, risponde che è “quasi” Dio) e la sfrontatezza che lo porta a parlare di sé sempre in terza persona, c’è un uomo che combatte con un’insostenibile angoscia di morte e con delle questioni irrisolte che scalfiscono anche la sua arte. Il pensiero di morire gli dà il tormento, tanto da assumere un atteggiamento di sfida; se, infatti, la morte è – come Dalì crede che sia – costantemente in agguato per catturarlo, sfuggirle equivale ad un piacere incommensurabile. Proprio perché è così vicina si può rendere eroico ogni momento della propria vita. Questa riflessione (illuminante e, per certi versi, rassicurante) deve fare i conti con le paure, le ansie e i limiti di un uomo che ha la tendenza a pensare e ad osservare una situazione secondo un punto di vista sadico e autodistruttivo.
Mary Harron sembra partire da un presupposto che, dal principio, le serve per assicurarsi una piena riuscita del suo ritratto. Raccontare (o ingabbiare?) in una pagina personaggi così complessi è impensabile. Anzi, surreale. E lei, da professionista in biografie (La scandalosa vita di Bettie Page, Charlie Says ma anche American Psycho), ne ha piena consapevolezza. Dalìland è, piuttosto, una riflessione sull’arte inserita in un contesto di atmosfere festaiole, dettami dell’industria culturale che gravano sulla creatività degli artisti, manie, ossessioni e ipocondrie di un uomo (un genio) capace di definirsi e perdere i contorni di se stesso con la stessa naturalezza. La regista non si accanisce nel voler restituire un’immagine esaustiva, ma i frammenti che porta sulla scena forniscono un’idea di chi era realmente Dalì, della sua testardaggine nel voler diventare una persona nuova ogni volta che dipingeva, anche solo modificando – per ogni opera – la propria firma, per non renderla individuabile in modo nitido. Per offuscare, nascondere, rendendo evidente come tutto possa essere il contrario di quello che appare.
Nell’universo di Dalì – da qui il titolo – emergono anche le figure – citate dallo stesso Dalì – di Luis Buñuel e Paul Éluard e l’idea di una pittura che non ha valore fino a quando non scompare per tramutarsi in un’illusione della realtà. Viene fuori il rapporto (malato) con Gala, unica donna in grado di assistere Dalì e – al tempo stesso – di annientarlo. Sua salvezza e distruzione. L’occhio sincero e sognante di James diventa, poi, un filtro; lo spettatore, cioè, assume il suo punto di vista, muovendosi fianco a fianco con l’artista, provando a comprendere i motivi (o, almeno, una minima parte) che ne hanno decretato il crollo. “I geni non possono morire”, lo dice Dalì stesso, forse per darsi forza. E basta pensare ad una delle sue opere più importanti, La persistenza della memoria (1931) per comprendere il valore (fluido) che associa al tempo.