di Mariantonietta Losanno
Un minuto, dieci secondi, poi cinque. Rigore assoluto. In tutte le cucine ci sono delle regole ferree, ma in quella di Chef Paul ci sono anche punizioni per chi non si attiene alle imposizioni dettate. Quando Aoy finisce in questo mondo le sembra di aver trovato l’occasione per rivoluzionare la sua vita. “Più mangi e più hai fame. Questo è il cibo che ti trasformerà in una persona speciale”, recita lo slogan del ristorante. Una chance, per la giovane ragazza, di dimostrare la sua eccezionalità, prima di tutto a se stessa. Aoy, però, tra i suoi punti di forza, non ha la sfrontatezza; come le è stato insegnato in famiglia, infatti, si mostra umile, ma profondamente appassionata. La passione in un mondo del genere purtroppo non basta. Quella di Chef Paul è una cucina per “chi ha realmente fame di qualcosa”, ma non fame da placare, come quella dei poveri. È desiderio di onnipotenza, di dominio assoluto; di essere, cioè, riconosciuti come dei “miti” indiscussi dalla gente che conta, i ricchi.
Non è la prima volta che Netflix (ci) ricorda – e sembra (ci) piaccia – che il mondo è ingiusto, servendosi della metafora del cibo. È stato così, infatti, per Il buco che, proprio nel periodo più “adatto” (?), a marzo del 2020, ha rappresentato perfettamente la filosofia di Hobbes “Homo homini lupus”, mostrando un sistema iniquo di distribuzione del cibo, in cui c’è stato chi si è ingozzato, chi è sopravvissuto a stento e chi è morto di fame. In Hunger succede qualcosa di simile. È, sostanzialmente, un discorso di status sociale e, più nello specifico di privilegi e disonori. C’è chi viene eletto come “persona speciale” e chi subisce punizioni per essere, invece, povero, sia di mezzi che di palato. Aoy cerca di capire dove schierarsi: ha sempre desiderato essere “incoronata” al rango di persona “che conta”, ma a quale prezzo? È disposta a bruciarsi, nonostante le piaccia “giocare” con il fuoco?
Che senso ha sgobbare per una vita intera senza prospettiva di ricchezza? Da questo interrogativo viene sviluppata una riflessione su come nel mondo della cucina – ma non solo – non ci sia democrazia, ma unicamente dittatura. Non si combatte ad armi pari, perché le regole vengono imposte dall’“alto” e chi non occupa le posizioni al vertice non può che subire. Non si possono battere convinzioni radicate che, senza bisogno di prove tangibili, decretano già i vincitori. Si sente dall’odore chi ha vinto, così come si sentiva dalla puzza (e una delle prime cose che Chef Paul fa, infatti, è proprio annusare) che Aoy non era ricca. Sono proprio gli odori a riportarci ad un’altra pellicola che ha raccontato il contrasto tra due mondi, Parasite, in cui, anche in questo caso, la povertà si poteva fiutare.
In Hunger – disponibile su Netflix – si disputa costantemente: da una parte ci sono i valori trasmessi in famiglia e le cose – o i cibi – fatti con “amore” (un modo di dire che, secondo Chef Paul, utilizzano solo coloro che non possono sfuggire alla povertà), dall’altra una cucina creata perché si implori di farlo, per il gusto di essere all’altezza di mangiare del caviale. Anche The Menu si era dato lo stesso bersaglio: non è solo il mondo della cucina gourmet ad essere “deriso”, ma, più in generale, quello (che si finge) colto, benestante; che frequenta solo un certo di ambienti e di persone, che è interessato a dimostrare di far parte solo di quell’universo. Persone ipercritiche, perché criticare è una prerogativa di un’“élite”; che – quasi sempre – si lasciano persuadere dall’autorevolezza di “figure importanti” e si lasciano convincere a seguire un “movimento”, che non smettono di esasperare il fanatismo. In Hunger vengono esaltate le pressioni che certi ambienti impongono, il metro di giudizio che ne consegue; in questo “mondo” non sono ammessi errori, debolezze o vulnerabilità. Questo mondo, però, sembra anche essere quello più facile da raggirare, che si adagia sul privilegio, ma che si compiace – sempre – delle vendette e delle violenze inique.
Per sottrarsi al meccanismo l’unica possibilità non è non avere più fame, ma saziarsi in un altro modo.