di Mariantonietta Losanno
Patrizia Cavalli ha acquisito più di uno spazio quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia. Sono stati presentati due progetti, entrambi alle Giornate degli Autori. Si tratta del documentario di Annalena Benini e Francesco Piccolo – Le mie poesie non cambieranno il mondo – e del cortometraggio – This Is How a Child Becomes a Poet – diretto da Céline Sciamma, entrambi filmati in casa della poetessa. Sono prima di tutto gli spazi, infatti, ad essere protagonisti. Spazi di cui si ha fiducia, che proteggono e resistono; non per forza “risonanti”, ma luoghi in cui possono materializzarsi allucinazioni, sviluppare discorsi sul Tempo (sovvertendolo?), osservare i riflessi sbiaditi dei ricordi, affidarsi ad una voce – o a più di una – che appare familiare. Spazi in cui l’immaginazione si fa parola, verso. Spazi dove l’esperienza trova la propria dimora, il “guscio” entro cui riparare e ripararsi. Luoghi della poesia, quindi, quelli su cui ha (tanto) ragionato Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio, soffermandosi sulla casa come strumento di analisi per l’anima.
Nel suo ragionare poetico, Patrizia Cavalli compie esercizi di consapevolezza, riconoscendosi anche avversaria di sé stessa (nei suoi versi parla di un «pulsare frenetico della sua nemica mente») e rintracciando le sue fragilità. Ridisegna alcuni (suoi) tratti; ri-trova il senso esatto di alcune parole, ripulite di tutta la loro possibile ambiguità e del loro delicato equilibrio di contrari. Parla della morte e con la morte («perdendo prendo», dice), ripete più volte i concetti – anche a causa della sua malattia – ed è come se, nella reiterazione, li purificasse e li dotasse di una nuova e insensata bellezza. Però, più ci si avvicina a Patrizia più sembra assomigliare ad un insieme di tracce indecifrabili. Appena qualcosa prende forma (costruendosi), qualcos’altro la perde (svuotandosi). In fondo, lo ammette lei stessa ai suoi “amici” (è lei a definirli così) di non essere capace di comunicare. O meglio, di non essere interessata a farlo. «Scrivere è nelle mie intenzioni, non comunicare», spiega, «comunicare è una cosa secondaria che non riguarda più me». I due registi non mostrano alcuna volontà di consacrazione, ma di “immortalare”, come quell’attimo che la fotografia ritaglia e che può rendere visibile un’essenza o un aspetto permanente del carattere. Si alternano materiali di archivio in cui una Patrizia più giovane si raccontava, racconti di persone che l’hanno conosciuta per cinquant’anni (!), momenti in cui canta e – persino – un estratto di un film di Marco Bellocchio, Discutiamo, discutiamo (episodio di Amore e rabbia, 1969), in cui c’è un piccolo cameo.
«Scrivere poesie è una forma che si addice alle debolezze del mio carattere, ai miei vizi. La pigrizia, l’intermittenza, l’impazienza. La poesia mi ha permesso di esercitare e di accogliere queste cose senza soffrire», (ci) spiega Patrizia, sottolineando la sua straordinaria fiducia nelle parole e il loro potere di istituire la realtà, di sostituirsi – persino – ad essa. Annalena Benini e Francesco Piccolo concedono (ulteriore) spazio anche agli spettatori, autorizzati a prendere parte alla discussione, a diventare anche amici di Patrizia. Sia di Patrizia poetessa e amante di Elsa Morante, Sandro Penna e Giovanni Raboni, che di Patrizia matura e poi malata o della Patrizia che è arrivata alla sua “vera” vita e alla sua “vera” poesia, dopo essersi rifugiata – per paura – in poesie non “compromettenti”.
La Cavalli è morta durante la post-produzione del film, che è come se segnasse un nuovo inizio. Tutte le cose sono slegate da una concezione comune del Tempo; sono riconoscibili, reali, pur avendo fatto un passo indietro rispetto alla loro concretezza. Un’immagine che racchiude in sé ciò che è possibile sapere e ciò che non si può sapere non passa, permane.