– di Adriana Castiello –
Nel 1977 tra la nascita del primo pc personale della Apple, l’uscita nelle sale della saga di Guerre Stellari e il primo singolo di Vasco Rossi, si insinuava una proposta da parte della North American Vegetarian Society (NAVS), sfociata nella fondazione del World Vegetarian Day, da allora ricorrenza che punta a raccogliere l’interesse collettivo il primo ottobre di ogni anno, dietro l’approvazione dell’Unione Vegetariana Internazionale. La scorsa domenica si è dunque festeggiata questa giornata, all’insegna della divulgazione della consapevolezza, riguardo le ragioni e i benefici portati in grembo dalla dieta vegetariana, sponsorizzando la morte dell’alimentazione onnivora, contrapposta ad un scelta di gioia, compassione e vita, necessaria alla creazione di un mondo migliore. L’idea del vegetarianismo è apparsa durante il Rinascimento, ma si è realizzata soltanto negli anni 80 in Inghilterra.
Da allora, il fenomeno si è visto protagonista di un incremento, tanto che ad oggi vegetariani, vegani e categorie simili rappresentano circa il 14% della popolazione mondiale. La Società Vegetariana auspica tuttavia il raggiungimento del 100%.
Se domani abbracciassimo tutti questa ideologia, il mondo ne gioverebbe davvero?
La favola utopistica narrata da tali minoranze, non incontra i concreti risvolti economici, sociologici, identitari a cui si andrebbe incontro, scardinando un sistema su cui si basa una radicata fetta occupazionale, senza la quale avrebbero luogo deleteri squilibri contro gli interessi del singolo e delle relative famiglie, danneggiando la ricchezza collettiva dei paesi ed incrementando la condizione di indigenza.
Andrew Jarvis, del Centro Internazionale della Colombia per l’Agricoltura, sottolinea infatti quanto il vegetarianismo, nei paesi in via di sviluppo, causerebbe gravi problemi in termini di stenti e povertà, mentre nel resto di mondo, si assisterebbe a fenomeni di ricollocazione dei lavoratori e riconversione dei terreni, dalla portata magistrale, implicando un immane tracollo economico, accentuato dalla scomparsa di 3,5 miliardi di ruminanti, il cui ritorno a uno stato selvatico, sarebbe associato a gravi privazioni e sofferenze per quegli stessi animali, che gli integralisti chiedono siano liberati.
Mandrie di bovini, greggi di pecore e capre vagherebbero nei boschi o negli spazi incolti, morendo di infezioni, parassiti, ferite, uccisi da predatori rispetto ai quali non detengono adeguate capacità difensive, generando un clima di devastazione decisamente più straziante di quello che ha luogo negli allevamenti, bersaglio indiscusso e generalizzato, delle accuse propagandistiche di vegetariani e vegani.
L’essenza dell’allevamento, specialmente quello proprio del Made in Italy, è riscattata dal giornalista sociologo Andrea Bersaglio, autore del libro In difesa della carne.
Un’opera, la cui pubblicazione si è rivelata particolarmente ostica, data la divergente linea di condotta, a cui le case editrici non tendono ad allinearsi, ad eccezion fatta dall’editor di Bersaglio, che ha descritto l’ambito pro-vegan in veste di una bolla modaiola che scoppierà presto. L’opera del giornalista intende inserirsi nell’ottica volta all’alimentazione di tale scoppio, trattando con diligente rispetto e razionalità temi ridotti ad una scarna e sconveniente utopia, che non salva la realtà, bensì la corrompe. Bersaglio fornisce uno sguardo al mondo della filiera della carne, in particolar modo al settore zootecnico italiano, mostrando una realtà che consta anche di sacrificio e professionalità, messa in atto da figure giovani, competenti ed appassionate, dedite alla cura degli animali e alla conseguente produzione di cibi di qualità. Tale modello esiste e si costruisce sulla base della tradizione e dell’attenzione, ma si ritrova celato dalle ombre dell’imputazione generale all’uomo dello sfruttamento animale. La propaganda animalista, promuove pertanto un senso di allarmismo, dovuto all’ignoranza rispetto agli sforzi e agli investimenti, propri di un settore di cui non si sa nulla, se non la piccola frazione di marcio reclamizzata, che non rappresenta la totalità.
A livello di agricoltura e alimentazione, l’abolizione degli allevamenti animali equivarrebbe all’impiego della chimica e delle biotecnologie, necessarie ad implementare la coltivazione di cereali e soia e causerebbe la perdita della biodiversità e delle monoculture: un ambiente naturale, senza l’uomo, non può funzionare.
Il sociologo francese Paul Ariès, con il suo libro Lettre ouverte au mangeurs de viande qui voudraient le rester sans culpabiliser e il ricercatore ambientale Frédéric Denhez con la sua opera La cause végane. Un nouvel intégrisme?, si inseriscono perfettamente in tale dibattito, sottolineando la semplicistica astrattezza e al tempo stesso il fuorviante radicalismo, delle minoranze in questione, affabulatori di una felicità riscontrabile in un mondo privo di carne e derivati, ricetta perfetta al conseguimento di libertà e salute, costituendo lo scintillante idillio, di una vita in comunione con la natura. Un occhio obiettivo, dotato di moderazione e sincera trasparenza intellettuale nei confronti della realtà, conosce i risvolti di degrado ecologico, industrializzazione e artificialità annessi, distingue l’entità dell’eccesso e respinge la finzione, poiché più di tutto, come sostiene lo scrittore giapponese Murakami, sa che l’equilibrio in sé, è il bene.