“SICK OF MYSELF”: CRITICA DELLA RAGION DIGITALE E NUOVE MUTAZIONI DEL CORPO (SENZA CRONENBERG) 

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di Mariantonietta Losanno 

«Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte», ha affermato Thomas Bernhard, quando ricevette un premio nazionale austriaco nel 1968 e fece la sua ultima – terribile – invettiva contro lo stato austriaco. Per Signe, invece, la morte è uno strumento di potere. Se morisse sarebbe (finalmente) notata. Se morisse esisterebbe. In questi termini, la morte, allora, non è poi così male. Ma arriviamoci per gradi, come se volessimo seguire lo stesso decorso della malattia di Signe. 

C’è una ragazza che crede in tutto quello che di malsano c’è al mondo. Crede alla verità dei social network, alla competizione con il proprio compagno, alla visibilità digitale che assicura – per diritto – una notorietà anche nella vita reale. Crede che il narcisismo possa essere un modo per fare carriera, che quello che è costoso abbia un costo in termini di valore, che diventare famosa significhi acquisire un’identità. La motivazione (solo una tra le tante) che innesca il suo piano di successo/distruzione è Thomas, il suo fidanzato, che ottiene più attenzione di quella che pensava di volere per sé stessa. Lui, artista contemporaneo, organizza mostre e fa interviste. Viene riconosciuto come persona e professionista. Signe non lo tollera, e si inventa un’altra strada per arrivare ad ottenere maggiore attenzione. Le capita l’occasione perfetta: una donna ferita – morsa da un cane – entra nel bar in cui lavora. Tutti la guardano senza avvicinarsi, lei è l’unica che prova ad aiutarla. Da lì si rende conto: il sangue. Basta essere pieni di sangue (anche appartenente ad un’altra persona) per attirare l’attenzione. Dopo aver aiutato la donna in pericolo, infatti, Signe torna a casa senza pulirsi, rendendosi conto di avere gli occhi di tutti puntati su di sé. Questo è solo l’inizio; il confine (serissimo) tra autocontrollo digitale e assoluta dissoluzione di sé è labile sin dai primi momenti, ma la situazione diventa grave – e irreversibile – quando Signe capisce di potersi spingere ancora oltre. Prima inventa un’allergia, ma è troppo comune, sarebbe solo una delle tante persone ad essere allergica ad uno o più alimenti. Serve qualcosa di più unico, più visibile, più grave. Dopo un maltrattamento ad un animale (tenta di farsi mordere), trova la soluzione: un farmaco che causa una pericolosa malattia della pelle. Finalmente sul corpo iniziano a vedersi i primi segni. Viene ricoverata in ospedale, orgogliosamente si fotografa, raccomanda al suo compagno di avvisare tutti che la situazione è grave. È felice, per pochi istanti. Ma poi: «Questo è tutto? Cinquantasei messaggi e un paio di visite e poi la vita va avanti?», dice a Thomas. È ancora troppo poco. Si toglie la maschera (che ricorda quella di Goodnight Mommy), fa altre foto, riesce ad essere anche intervistata, diventa una modella, scrive un’autobiografia (le persone dicono che ricorda Fame di Knut Hamsun!), va in televisione e il padre (che non è mai andato a trovarla) viene chiamato come ospite. O forse immagina che succeda tutto questo. 

Chi è la vittima? Quella che subisce le conseguenze disastrose ed irreversibili della rivoluzione digitale o quella che non ha alcuna responsabilità nell’ammalarsi? Signe è vittima o carnefice? Difficile trovare una risposta dal momento in cui bisognerebbe scegliere quale tra i due piani – reale o digitale – sia più grave. È lei la causa di tutto, certo, ma questo la rende colpevole, innocente o corresponsabile di tutto quello che accade dopo? Nell’epoca della totale assuefazione digitale, l’attenzione è diventata una merce per la quale competono tutti. E, nel competere, si perde controllo della propria attenzione: verso cosa – e chi – è rivolta? Qual è l’obiettivo, essere in “copertina”, cioè sotto i riflettori? Se fosse questo, bisognerebbe fare i conti con il fatto che quella copertina un giorno – ma anche solo poche ore dopo – possa essere sostituita da altro. Dai fatti più notiziabili o malattie più gravi, per esempio. Allora cosa rimane? Forse la morte? 

Il regista norvegese Kristoffer Borgli – al suo secondo lungometraggio – mette in scena i rapporti malati (e che a loro volta causano ulteriori malattie) dei nostri tempi. La pellicola – che ricorda la linea di Ninja Thyberg in Pleasure o quella di Joachim Trier in Thelma – è stata presentata a Un Certain Regard di Cannes 2022 ed è una riflessione sui corpi e su quanto possano diventare “veri” quando vengono ritenuti tali nel mondo “finto”. Solo gli amanti sopravvivono, direbbe Jim Jarmusch. Quelli di Borgli preferiscono morire pur di dare dimostrazione di essere esistiti.