“LES ENFANTS DES AUTRES”, REBECCA ZLOTOWSKI: L’ALTRO (E) LO STESSO 

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di Mariantonietta Losanno 

%name “LES ENFANTS DES AUTRES”, REBECCA ZLOTOWSKI: L’ALTRO (E) LO STESSO «E adesso la città quasi è una mappa / di tanti fallimenti e umiliazioni; / da questa porta ho ammirato i tramonti, / davanti a questo marmo ho atteso invano. / Qui l’indistinto ieri e l’oggi nitido / mi hanno elargito gli ordinari casi / d’ogni destino; qui i miei passi intessono / il loro labirinto incalcolabile. […] Ci unisce la paura, non l’amore; / sarà per questo che io l’amo così tanto», recita una delle poesie di Jorge Luis Borges ne L’altro, lo stesso. L’ultimo film di Rebecca Zlotowski tenta di dare una risposta specificatamente cinematografica ad un bisogno privato. La pellicola, infatti, è in parte autobiografica, e la stessa regista ha raccontato – in un’intervista – di aver messo a confronto la sua vita con lo script del film. A differenza di altri prodotti del genere (focalizzati sulla maternità), Les enfants des autres unisce la teoria all’esperienza; esiste, infatti, una differenza notevole nel racconto individualistico – in parte fine a sé stesso – e il racconto per altri/e. Rebecca Zlotowski si espone, mettendosi a nudo, sperando di essere compresa. Augurandosi, cioè, che chiunque osservi riesca a cogliere il suo punto di vista e quello dell’altro. È un susseguirsi di “io” e “Altro”, di quello che (ci) appartiene e quello che, invece, (ci) è negato. Il tema che sceglie (più che una scelta sembra un’urgenza) di portare in scena ha una sua storia e – purtroppo – una sua funzione sociale e politica. È parlando (molto spesso impropriamente, senza alcun diritto in merito) di maternità che si è formata la disparità tra sessi; che si è rafforzata, anche, la contrapposizione tra madri e non-madri, in alcuni casi accentuata dalle donne stesse. Come ci si sente ad essere madri, ad impegnarsi in un “lavoro per la vita” (come direbbe Rachel Cusk)? E come si convive con il fatto di essere non-madri, per scelta o per impossibilità di diventarlo? Come si riesce ad essere “sé” e “Altro da sé”? 

Rebecca Zlotowski dà modo allo spettatore di acclimatarsi fornendo una piccola citazione cinematografica nell’incipit della sua opera. La classe di Rachel sta venendo un film, e si tratta de Les liaisons dangereuses, di Roger Vadim. È stata Rachel, naturalmente, ad averlo scelto, dopo aver fatto leggere ai suoi studenti il romanzo di Choderlos de Laclos da cui è tratto. I ragazzi sono confusi, forse anche un po’ distratti; chiedono all’insegnante di spiegare loro la conclusione del film, o anche solo «come va a finire». Rachel sorride e risponde: «male, naturalmente». Anche il pubblico – oltre alla classe – viene informato: siamo in parte preparati a quello che succederà. 

%name “LES ENFANTS DES AUTRES”, REBECCA ZLOTOWSKI: L’ALTRO (E) LO STESSO Rachel incontra Alì in un momento della sua vita in cui sembra essere serena. Ha un ottimo rapporto con il padre e la sorella (ha perso sua madre da bambina, elemento essenziale per comprendere gli sviluppi successivi); una vocazione – sana – per il suo lavoro, che cerca di svolgere non solo ricoprendo il ruolo istituzionale, ma impegnandosi a mettere in pratica il “metodo socratico”, quello della maieutica. La maternità non è un discorso che la ossessiona, né sembra avere l’urgenza di instaurare una relazione ponendosi come obiettivo (anche) una gravidanza. Alì, però, ha una bambina di quattro anni, Leila, che Rachel vuole conoscere. All’inizio prova ad avvicinarsi a lei osservando i suoi “oggetti”; in casa del suo nuovo compagno, infatti, ci sono i suoi disegni, che tenta di decifrare per iniziare a comprendere il suo linguaggio. Finalmente, poi, avviene l’incontro, con un po’ di stupore di Alì che, prontamente, le dice: «non era scontato che volessi conoscerla. I figli degli altri, a volte…», senza concludere il pensiero, come se fosse tutto già chiaro. Gli altri, appunto. C’è il “sé” che deve scontrarsi – costantemente – con gli altri. Un sé nuovo o ri-costruito, che ha scoperto una nuova forma di amore, quello materno. Rachel si prende cura di Leila (non meno di come lo fa con la sua famiglia o i suoi studenti), impara a starle vicino senza invadere gli spazi di Alì – né della sua ex compagna Alice – e, mentre il rapporto con la bimba cresce, si insinua – delicatamente – in lei il pensiero di essere madre. Questo desiderio è la risposta ad un bisogno di amare “per intero” un figlio tutto suo; un figlio, cioè, verso cui ha il diritto di arrabbiarsi, sgridarlo, soffrire. Non essendo più solo una “comparsa”. 

%name “LES ENFANTS DES AUTRES”, REBECCA ZLOTOWSKI: L’ALTRO (E) LO STESSO Il modo di raccontare un dolore così grande – che non viene né colmato né lenito, ma esibito – rende meno innominabile una questione tanto delicata quanto la maternità che deve fare i conti con il tempo e l’avanzare dell’età. Ma non solo. Ne Les enfants des autres c’è la sofferenza di una donna che accetta – perché deve farlo – di essere seconda e di essere tagliata fuori da una parte della vita del proprio compagno. Com’è, realmente, amare un uomo che ha un figlio da un’altra? Com’è, poi, amare quel figlio come se non fosse di un’altra? Si può creare una nuova famiglia? È Leila stessa, a soli cinque anni, a dimostrare di accettare la presenza di Rachel, rappresentando in un disegno (tenerissimo, difficile non commuoversi) tutte le persone della sua nuova vita. Ed è sempre Leila a risollevare Rachel dal suo dolore proponendo un abbraccio “da sandwich” (ancora più commovente!), in cui lei – che è la più piccola – è al centro, ed è una volta il formaggio, l’altra l’insalata. 

«Bisogna nominare le cose perché se ne possa parlare»: Rachel parla al posto di Rebecca – o sono, forse, un’unica cosa? – e prende posizione. Con coraggio, senza ignorare il dolore, la disperazione, il non sentirsi all’altezza. Ma anche accettando l’invidia – sana – di vedere altre donne vivere un’esperienza che per alcune è negata. Rebecca Zlotowski mette in scena qualcosa di intelligibile e di generale, la sua esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri. Dimostra una capacità di “canto” e di “strazio”, la stessa che ha mostrato Patrizia Valduga nella sua raccolta di poesie Medicamenta e altri medicamenta, cantando il suo strazio e straziando il suo canto. Mettendo a nudo la (sua) verità, la regista de Une fille facile dimostra una delle espressioni più sincere di un femminismo sano, che non si accanisce contro l’altra donna, ma che, anzi, rivela un’intensa solidarietà. Rachel non è per nulla ostile, né accusa mai Alice (dà, invece, le colpe ad Alì), né ritiene che sia colpevole di averla ferita. La ascolta quando si sfoga, la consola quando soffre, perché quello che le succede riguarda (un po’) anche lei. 

Quello che aiuta – ma non per forza consola – ad andare avanti è che la vita è lunga (come dice Frederick Wiseman, nel ruolo del ginecologo) e che tutto l’amore donato non svanisce. Lascia il segno, si trasforma in Altro. In un altro Sé.