di Mariantonietta Losanno
Sono tempi difficili, questi, per parlare del vero significato dell’essere donna. Agnès Varda la domanda l’ha posta (anche a sé stessa, naturalmente) nel 1975 e ha lasciato che rispondessero altre donne, ognuna di loro fornendo un contributo differente. «Sono io, con tutto il mio corpo. Non mi limito ai punti caldi del desiderio maschile», dice una di loro. Ma chi – a parte una donna – sa cosa significhi vivere in un corpo di donna? E, soprattutto, chi sa cosa significhi in questi tempi difficili? Gli stessi tempi in cui, di fronte ad uno stupro, si accusa – ancora – la vittima, si giudica, si esprimono opinioni precedute sempre dalla stessa identica frase discolpatoria: «Il fatto è gravissimo, ma…». A quel ma seguono, poi, una serie di parole indicibili, capaci di colpevolizzare ulteriormente la vittima. «Se vai a ballare, hai il diritto di ubriacarti», dice il giornalista di Rete 4 Andrea Giambruno, «Ma se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi», continua. Certo, di lupi ce ne sono davvero tanti. E con queste parole sembra ammettere di esserne parte. Perché, d’altronde, l’uomo ubriaco è l’uomo che non ha cognizione di quello che fa e che ha diritto (quanto ci si diverte ad usare questa parola impropriamente) di compiere azioni che – in uno stato più lucido – non commetterebbe mai. Va compreso, proprio perché ubriaco. È l’attenuante che gli consente di fare ciò che fa. La donna ubriaca è la donna che istiga, provoca, chiede – implicitamente – che gli uomini le si avvicinino. Anche se dice di no in fondo le piace. Piace a tutte le donne.
Vengono dimostrati continuamente – e morbosamente – la presenza e il potere di una tradizione viva. Una tradizione (viva, senz’altro anche ai tempi in cui Agnès Varda sviluppò il suo pensiero) che vede la donna e l’uomo destinati ad essere diversi per sempre. Questo giudizio assillante nei confronti del corpo femminile è dettato da una cultura che si è consolidata nel tempo e che si consolida tutt’ora. Portare avanti un pensiero (si potrebbe dire femminista, ma anche questa parola – come tutte quelle che terminano in -ista – ha subito i suoi cambiamenti) capace di difendere realmente il ruolo della donna (abbandonando la retorica pedante che crede di valorizzarne il ruolo rimarcandone la presenza nei contesti lavorativi, ad esempio, come se la cosa fosse un’eccezionalità di cui gioire), non significa abbandonare – drasticamente – il concetto di responsabilità. Non significa legittimare l’uso o l’abuso di alcool, ad esempio. Significa porre sullo stesso piano le diverse condizioni. Se l’uomo ubriaco «non è in sé», allora anche la donna ubriaca non lo è. Non può esistere da un lato l’attenuante e dall’altro l’aggravante. Sono tempi difficili per parlare del vero significato dell’essere donna, appunto.
«Essere donna significa essere unica, desiderata, presente, misteriosa. Con follie e dettagli assortiti», dice un’altra delle donne intervistate dalla Varda. È un privilegio essere guardate. Anzi, bisognerebbe scoprirsi proprio per piacere, per “vendere” di più. Ma c’è un ricatto: chi si scopre, poi, non può lamentarsi delle conseguenze. Perché ci sono, necessariamente. Pensiamo alle pubblicità in cui vengono mostrati – usati – corpi di donne. «Ben disegnata, con delle belle forme: una bellissima scrivania», recita lo slogan di uno spot. Quella donna, funzionale alla vendita, rappresenta tante altre. Tutte. Tutte le volte che spogliano una donna per vendere un prodotto le disprezzano tutte, le espongono tutte, le comprano tutte, le criticano tutte. Dirlo, chiaramente, equivale a lamentarsi. Così come ci si lamenterà un giorno (si è interessanti finché si è giovani) di non essere più desiderate. Perché le donne sono lamentose, fragili. Soffrono di più, piangono di più. «Ah, tu pensavi che anch’io fossi una che si possa dimenticare e che si butti, pregando e piangendo, sotto gli zoccoli di un baio», ha scritto la poetessa Anna Achmatova. La sua voce – come quelle di altre donne “rivoluzionarie” – risuona ancora. Vive.
Come reagire? Come difendere il diritto di definirsi sfuggendo dal giudizio altrui (maschile ma anche femminile, ché senza ipocrisia possiamo ammettere che non ci sia sempre una totale solidarietà) e essere chi si vuole essere? Donne, ma non per forza madri. Donne che non devono dimostrare di essere “vere” donne (quand’è che l’uomo ha dimostrato di essere “vero”?). Le cose cambieranno, dice un’altra delle protagoniste dell’opera di Agnès Varda. Reinventando la donna, reinventando anche l’amore.