di Mariantonietta Losanno
Il 1959 è stato un anno fondamentale nella storia del cinema. È stato l’anno de I quattrocento colpi di François Truffaut, di Hiroshima, mon amour di Alain Resnais, di Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock e de La grande guerra di Mario Monicelli. Ed è stato l’anno di Diario di un ladro (titolo originale Pickpocket) di Robert Bresson, un regista “minimalista”, che ha sempre ricercato – ed ottenuto – un grande rigore depurativo.
A raccontare la storia è il protagonista stesso (Michel, interpretato da Martin Lassalle) che legge il suo diario. Dopo alcune titubanze iniziali, sceglie di dedicarsi al borseggio, che considera una manifestazione di astuzia e abilità. E anche l’unico modo di placare il suo tormento interiore. La sua maniera di autoaffermarsi. Dopo diversi furti, però, viene catturato dalla polizia e, trovandosi in carcere, si rende conto che l’amore che prova per una ragazza può dare realmente un senso alla sua esistenza. Bresson precisa l’intento del film sin dai titoli di testa: «Questo non è un film poliziesco. L’autore vuole esprimere, attraverso immagini e suoni, l’incubo di un giovane uomo spinto dalla sua debolezza al furto, per il quale non è tagliato. Solamente quest’avventura, attraverso sentieri sconosciuti, riunirà due anime che, senza di essa, non si sarebbero probabilmente mai conosciuti». Come poter ritenere il furto capace di legare due persone? Immaginando, ad esempio, come il superamento degli impulsi negativi riesca a far emergere l’importanza dell‘amore. Si tratta, però, di una concezione di amore che si concretizza in un delirio narcisistico: l’ego dell’uno si rispecchia in quello dell’altro in una esaltazione reciproca. Sono due solitudini ad essere “in azione”: l’orgoglio e la passione. Nel Cinema di Bresson un personaggio vive, agisce e ragiona in modo diverso da quelli che lo circondano. È come se fosse in un altro mondo, dettato da un diverso sistema di valori e di pensieri. Ma la solitudine è complessa da portare sullo schermo. E, di questo, Bresson è stato “accusato” (un po’ come quando si accusa un ladro) da Jacques Doniol-Valcroze e Jean Luc-Godard, che hanno visto privilegiato – in ogni suo film – questo tema. «La solitudine è pericolosa» – si difende Bresson – «bisogna circondarla di molta tenerezza ed amore per riuscire a farla accettare».
Diario di un ladro è un’opera – volutamente e inconsciamente – “non politicamente corretta” e scabrosa, in cui l’amoralismo cinico si impone con prepotenza. Il furto, che prima si presenta come una necessità e poi come una vocazione, esprime l’inquietudine interiore del protagonista che, solo grazie all’amore riuscirà – poi – a riscattarsi (?). Bresson, portando avanti un’idea di cinema esistenzialista nei contenuti e minimalista nella messa in scena, sospende ogni giudizio morale per focalizzarsi sul bisogno di Michel di riappacificarsi con sé stesso, di acquisire fiducia e di trovare la propria pace spirituale.
Nonostante gli atti molto discutibili che compie, Michel non è il “solito ladro”: è l’espressione di un’anarchia esistenziale, di un gesto rivoluzionario individuale, dell’affermazione di scaltrezza ed intelligenza. Bresson, con una regia controllatissima e raffinata, si serve del furto per raccontare delle “performance artistiche”; si focalizza sul vuoto esistenziale di una vita solitaria e senza scopo che cerca nell’amore un’alternativa all’apatia; si concentra su un personaggio intrappolato tra gli opposti automatismi dell’integrazione e della rivolta. Michel non sa resistere alla tentazione di rubare. Che cosa vuole cercare? Probabilmente (il diavolo) sé stesso: sente la necessità di affermare la propria individualità. Con Bresson il cinema si erge ad un nuovo livello di immagine e suono, con l’unico scopo di rendere pura l’opera realizzata. Si avverte una sensazione di liberazione catartica. Non sono mai gli avvenimenti a imporre il loro ritmo, ma l’evoluzione interiore dei personaggi. La preoccupazione maggiore di Bresson è l’economia dei mezzi: «Quando basta un violino non bisogna usarne due […]. Non si crea aggiungendo, ma levando. Sviluppare è un’altra cosa», ha detto. E lo ha dimostrato – ad esempio – in Au hasard Balthazar, in cui il rumore dell’acqua che cade goccia a goccia rende (al contempo) la sete dell’animale e l’avarizia del mercante di grano.