di Mariantonietta Losanno
La sorte di Barbie si affida – con fiducia – a chi lo guarda. Le tracce della voce di Greta Gerwig sono evidenti, ma più come orme che come indizi di un percorso da seguire. Non ci sono verità inferiori (direbbe Annie Ernaux), né assolute. Può darsi che la visione di questo cult (già definito come tale ancora prima che uscisse nelle sale) possa suscitare irritazione o persino repulsione. Ma è anche vero che è necessario andare fino a fondo prima di prendere una posizione. Senza necessariamente schierarsi. Andiamo per gradi. Barbie approccia ad un pubblico già consapevole di quello che può essere – ma non per forza è – un discorso sul femminismo. Un pubblico che può accanirsi e incattivirsi, ma sicuramente è a suo agio nel prendere parte a “certi” temi. E Greta Gerwig lo ammette subito: «Certo, sono una femminista. Ma questo film ha anche a che fare con l’idea che qualsiasi tipo di struttura di potere gerarchico non sia così eccezionale», dice nell’intervista per Rolling Stones. E neppure Noah Baumbach – co-sceneggiatore della pellicola – ha mai nascosto la sua idea. Anzi, si è espresso filmando; ha dipinto personaggi femminili reali (tanto in Storia di un matrimonio, quanto in Frances Ha, ad esempio), raccontando e omaggiando i fallimenti, normalizzando – con ironia – le difficoltà di accettarsi e realizzarsi. Che da queste premesse, poi, si possano trarre conclusioni affrettate e osservare ogni cosa come se fosse iper-femminista (iper-rosa, iper-politica, iper-tutto) è a discrezione dello spettatore. È a lui, appunto, che si affida la sorte dell’opera.
Barbie ha cambiato tutto e poi ha cambiato tutto di nuovo. Ha cominciato con un costume da bagno e poi è diventata molto di più. Una donna in carriera, una madre, una casalinga. O nessuna di tutte le precedenti. Chiunque abbia mai giocato con le Barbie ha scelto di ricoprire un ruolo. Sono i primi momenti in cui i bambini e le bambine prendono coscienza della propria identità, provandone tante diverse. Recitano (è il sociologo Erving Goffman a soffermarsi su questo aspetto ne La vita quotidiana come rappresentazione) si nascondono, fanno tentativi. Diventano qualcuno e poi subito dopo qualcun altro. Prendono la propria Barbie e poi la ripongono dove vogliono, poi la utilizzano di nuovo o ne scelgono un’altra. È quello che, poi, si fa anche da adulti, spesso dimenticandosi di chi si è realmente. Questo è un primo punto del discorso, poi c’è quello che riguarda chi realmente Barbie è. Greta Gerwig sceglie Margot Robbie per rappresentarla che, nel mostrarsi come una bambola, regala una performance squisitamente umana. Cambia insieme a Barbie, si scopre, si perde, si rassegna, ricomincia da capo. Si concede di essere vulnerabile, frivola, intelligente, bellissima, ingenua. Si danna per la cellulite e si lamenta per i suoi complessi fisici (proprio lei, sì, come tutte e tutti); si trasforma da Barbie stereotipo a Barbie avventura, alternando tacchi alti a Birkenstock (di cui c’è stato un aumento delle vendite del 110%, ma perché dovrebbe stupire o infastidire questo dato?!). Si confronta con la vita reale, con gli ideali fisici irrealizzabili, con tutte le donne che l’hanno odiata e criticata. Forse non è il modo migliore per affrontare la questione soffermarsi su quello che il corpo di (una) Barbie dice. Chi è che non vede che è bellissima? Ma è davvero questo il “problema”? Non sono i diversi modi di stare al mondo, i contesti sfavorevoli, gli scenari di discriminazione, le violazioni dei diritti? Non sono tutti questi elementi appena citati che si traducono, spesso, in storie di dolore? Su questo aspetto, Greta Gerwig preferisce ironizzare. E si affida ancora al pubblico. Sono gli spettatori, infatti, a divertirsi (in modo sincero) quando Margot/Barbie si lamenta del suo corpo. Perché sì, fa sorridere, nulla di più. Siamo andati oltre (si spera) tutto questo. Oltre, cioè, all’idea di doversi identificare con l’immagine di una Barbie o di un Ken. Che poi, sappiamo – ormai – che non converrebbe, conoscendo le “parti” di cui sono sprovvisti.
Soffermiamoci su quello che si può – e si deve – esigere quando si parla di “femminismo”. Una stanza tutta per sé, ad esempio. Quella che Virginia Woolf (rifacendosi alle modalità descritte da Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio) riteneva fosse uno spazio inviolabile, il «momento cruciale della sospensione e della mutazione nella storia del femminile». Una stanza con le pareti pervase dalla forza creativa e dagli echi di (altre) donne dimenticate, umiliate, addomesticate, inquiete, esiliate. Donne che è necessario richiamare. Donne che si sono affannate a chiedersi «che cosa fare per essere perfette», come ha scritto Patrizia Cavalli in Vita meravigliosa. Questo può essere (e non per forza è) un punto di vista sul femminismo.
«Sono femminista perché credo nei diritti delle donne, nell’intelligenza delle donne, nelle loro capacità, nel posto che devono ricoprire nella società e nella famiglia. Quello che mi sciocca è che ci si renda conto solo ora che il problema esiste. È legato al potere sociale innanzitutto e gli uomini ne sono complici», ha detto Agnès Varda, originale nel suo essere cineasta e nel suo essere femminista. Greta Gerwig è consapevole che gli uomini siano complici di questo sistema e decide per questo di includerli nel dibattito. Ken (un Ryan Gosling che – divertendosi – non si prende troppo sul serio) viene ignorato e discriminato, sia nel mondo reale che a Barbieland. Dissacra l’immagine del Ken stereotipato mostrando paura e incertezza (tratti che un uomo non dovrebbe avere mai!), confidando i suoi sentimenti, persino piangendo. È Ryan/Ken a capire che essere uomo non basta (più), ad approfondire il discorso sul patriarcato, sempre affidandosi – e fidandosi – alla preparazione del pubblico verso questi argomenti. Ché il pubblico sa (?) che si può trovare la propria identità sia nella vita privata, che nell’ambito lavorativo, che con il proprio corpo. Che si può smettere di giudicarsi per come si è o come si dovrebbe essere (senza leggere queste frasi con retorica, preferibilmente), che si può scegliere l’ordinarietà, che si può anche non decidere. Che si può anche non essere donne – o uomini – “per bene”, come ha scritto la poetessa russa Marina Cvetaeva nel 1919 («Le donne per bene, non sono donne»). Lei, appunto, non era una donna per bene, ed era fiera di non esserlo.
Allora, non serve – forse – accanirsi sui pronomi utilizzati. Non è necessario cercarsi all’interno di un elenco di persone. Si potrebbe, piuttosto, iniziare a chiedersi “chi sono?”, non “tra chi sono?”. È quello che (un’altra femminista, possiamo dirlo) Chantal Akerman ha fatto nella sua opera Je, tu, il, elle, provando anche a limitare i contorni del “non-essere”, perché anche essere negativamente è uno dei modi più forti di essere. Possedere il proprio “rovescio” – consacrandosi ad ogni particolare del non – significa vivere il lato contrario di quello che non si vuole diventare. Aiuta ad arrivare alla verità. Greta Gerwig vuole arrivare alla (sua) verità. E ci arriva. Senza negare l’aspetto politico («Siamo figli dell’epoca,/l’epoca è politica», ha scritto Wisława Szymborska in Gente sul ponte (1986), né semplificando la questione riducendola ad un puro scintillio di colori o ad un fenomeno alla “moda”. Approccia a più temi (perché ce ne sono tanti) mettendo in discussione ciò che esiste, ed è per questo che Barbie è diventato un cult molto prima dell’attribuzione ufficiale. In tutte le sue tante (forse anche troppe) linee narrative ci sono spunti sufficienti su cui riflettere (sarebbe affascinante ascoltare i pareri di tutte le masse che stanno – finalmente – riempiendo le sale) ore e ore. E questo basta (eccome!) a renderlo un prodotto interessante e non solo un’idea. Greta Gerwig ha i piedi per terra, anche a Barbieland. Infatti, la prima cosa che fa la sua Barbie umana è andare dal ginecologo.