“David Lynch: The Art Life”: i mondi incomunicabili dello spirito e il “pensare per immagini”

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di Mariantonietta Losanno 

%name “David Lynch: The Art Life”: i mondi incomunicabili dello spirito e il “pensare per immagini”È il David Lynch adulto – e artista – a raccontare tutto quello che l’ha portato ad inventare sé stesso. «Sono nato a Missoula, Montana, il 20 gennaio 1946», dice, partendo dal principio. All’epoca, il suo mondo era molto piccolo, costituito da appena un paio di isolati. Racconta di sé come se si stesse rappresentando (nel frattempo, naturalmente, dipinge), soffermandosi su ogni minimo dettaglio. Perché – spiega – «Ogni volta che si dipinge si fa qualcosa partendo da certe nostre idee. E, spesso, è il nostro passato che magicamente le evoca e le colora». È inevitabile, allora, parlare della sua infanzia e di quei mondi “enormi” racchiusi in uno ancora troppo piccolo. L’approccio all’Arte avviene attraverso la pittura, ma contrariamente ad ogni “regola”. Sua madre, infatti, si rifiutò di dargli degli album da colorare (cosa che non fece con i suoi fratelli), nonostante gli piacesse così tanto, perché aveva già intuito che potesse risultare limitante. Quei libri gli avrebbero impedito di creare sé stesso. All’inizio disegnava quello che conosceva; la guerra era appena finita e – per la gran parte – rappresentava munizioni, pistole e aeroplani. I vari cambiamenti di residenza hanno, poi, inciso sul suo modo di vivere la pittura. Non fu la scuola (non esisteva neppure la preoccupazione che fare il pittore fosse o meno una professione legittima), ma quello che – a poco a poco – iniziava ad abitare il suo mondo. L’incontro con il suo amico Toby, ad esempio, il cui padre (Bushnell Keeler) era un pittore, fu uno di quegli eventi “fantastici” – nell’accezione di soprannaturale – perché lo mise sulla (giusta) strada. La vita dell’Arte era lì, proprio di fronte ai suoi occhi. Keeler, infatti, gli regalò un libro – The Art Spirit, di Robert Henri – e da quel momento utilizzò l’espressione La vita dell’arte: una vita, cioè, in cui era essenziale creare, porsi a stretto contatto con le situazioni, soprattutto quelle più “oscure”. 

L’infanzia di Lynch è stata contraddistinta da un “base di amore” – come lui stesso dice – e da una famiglia in cui non c’era nessuno che imponeva autorità sull’altro. Quello che realmente ispirò la sua pittura fu, però, il mistero. Quando si immagina l’America “media” si pensa a case eleganti, strade fiancheggiate da alberi, il lattaio, i cortili nel retro dei palazzi, il ronzio degli aerei, i cieli blu, le staccionate, l’erba verde, i ciliegi. A David (confidenzialmente, dato che siamo stati “accolti” nel suo mondo) interessava la resina che colava dai ciliegi, a volte nera a volte gialla, con milioni di formiche rosse che strisciavano sopra. Dal momento in cui era cresciuto in un mondo “perfetto”, tutto il resto rappresentava un contrasto. Osservava la vita in primissimi piani. Ed è proprio quando iniziò ad addentrarsi nel buio pesto che vide sé stesso. Le sue tre vite (allo studio, con gli amici e in casa) diventarono una sola quando realizzò che dall’incontro tra mondi (perché è un continuo parlare di mondi, sin dal principio) non poteva scaturire qualcosa di negativo. La sua vita diventò una sola, quella dell’arte. Dell’ossessione dell’ignoto, del sogno/incubo, delle percezioni alterate ma mai falsificate. Una vita, cioè, proiettata al di là del visibile, interessata a dipingere, più che un oggetto, la sua ombra. 

Una vita in cui – finalmente – arrivò il Cinema. I dipinti iniziarono a muoversi, ma con il suono. Il suo “pensare per immagini” lo portò alla realizzazione dei suoi primi cortometraggi, The Alphabet e The Grandmother, che sembrano provenire dalle stesse “zone”. Nessuno dei due somiglia ai ricordi di un’infanzia felice. L’ispirazione è diversa, folle, libera, persino pericolosa. Tanto da spingere suo padre a dissuaderlo dall’avere figli, ignaro del fatto che la moglie di David fosse già incinta. 

IMG 2476 300x169 “David Lynch: The Art Life”: i mondi incomunicabili dello spirito e il “pensare per immagini”Per trovare il suo posto, Lynch ha scelto di costruirlo. A sua immagine e somiglianza. Un luogo dove le idee nuove vengono colorate dal passato, ma anche da tutto quello che accade attorno. David reagisce ad ogni cosa, tentando di cogliere un sentore di ciò che ha realmente in testa. Frammento dopo frammento, fino a formare l’immagine per intero. Fino a vedere sé stesso. Nel suo quadro – intitolato proprio Io vedo me stesso – ci sono due figure, una scura, l’altra bianca e scheletrica. È come guardare attraverso un divisorio. In questa combinazione di opposti (contrapposte non necessariamente nel senso che una è buona e l’altra è cattiva) è espressa (parte del)la sua realtà. 

Dai novanta minuti estrapolati dai settecento girati, viene fuori un quadro perfettamente (in)coerente di un artista che – volutamente – “esagera” se stesso. Che alla durata della sua esistenza attribuisce un significato occulto che va oltre sé stesso. Che riunisce in sé passato e presente, che lotta per conquistare più profondamente la propria libertà di sensazioni e pensieri, senza alcun senso utilitario.