Da poche settimane l’anno scolastico si è concluso e qualcuno direbbe “Meno male, finalmente, non vedevo l’ora” ed è questo il momento dei tanto attesi spettacoli o recite di fine anno, in cui le docenti attraverso tematiche affrontate durante l’arco dell’anno scolastico, preparano e mettono in scena una delle tante argomentazioni oggetto delle unità di apprendimento.
E si sa che questi momenti racchiudono dietro mesi e mesi di prove tecniche, ore di recitazione e balletti vari di coreografie con musiche a tema. Negli anni della normativa interna scolastica, si è tenuto a precisare che le manifestazioni di fine anno non sono “recite” in quanto la recita profuma di scolasticità, di staticità, di bambini con le mani dietro la schiena che dondolano nel parlare o nel cantare, insomma è un po’ come chiamare pianola un pianoforte digitale. Non per niente in origine etimologica la parola “recitare” voleva dire “fare l’appello” come se si trattasse di testimoni in un tribunale. Molto più funzionale quindi usare la parola “spettacolo” che vuol dire tutto ciò che attrae il nostro sguardo, la nostra vista, la nostra attenzione.
Ma veniamo al dunque: Emanuele è un alunno di otto anni e frequenta la classe seconda di un rinomato istituto paritario religioso, è autistico non verbale di livello severo. È molto seguito a casa ed effettua terapie sempre. È figlio unico e la madre segue il suo percorso riabilitativo terapeutico con scrupolosa perseveranza. Anche lui, in accordo con le docenti della classe, parteciperà allo spettacolo di fine anno, perché la scuola si professa il “regno dell’inclusione”, il luogo delle relazioni possibili e la prima palestra in cui si incentivano l’autonomia e l’autostima. La madre chiede se sia il caso di farlo partecipare e solo dopo il placet delle docenti tutte, si convince che forse questa sia la scelta migliore.
Emanuele quel giorno è pronto come i suoi compagni di classe, vestito esattamente come gli altri, emozionato forse più degli altri, sorride e sale sul palco preso per mano da una sua compagna: parte la musica, tempo di uscire dalle quinte, fare un mezzo giro e Emanuele sparisce dalla scena: ma dove è? Dove è finito Emanuele? Perché non è sul palco?
La musica prosegue, i bambini si allineano, parte la coreografia e di Emanuele nemmeno l’ombra e i genitori si chiedono dove sia finito e soprattutto perché non è lì con gli altri ragazzi. Nessuno fornisce risposte anche perché con Emanuele c’è la sua insegnante di sostegno nonché sua terapista che lo segue ovunque e comunque. Ma Emanuele? Dove sta? Cosa sta facendo?
Parte la seconda scena dello spettacolo e Emanuele stavolta è con la sua classe, seconda fila, la musica inizia…Una compagna cerca di tirare su Emanuele per un braccio, ma lui non ne vuole sapere, resta raggomitolato su se stesso, ignaro di chi c’è intorno, di cosa si stia facendo e perché: la coreografia inizia e tutti seguono eccetto Emanuele. Cosa sarebbe dovuto accadere in quel momento esatto se solo l’insegnante fosse stata preparata? Se i compagni fossero stati “formati agli imprevisti” tipici dello spettro autistico? Cosa si sarebbe potuto fare per evitare che si notasse il suo isolamento, il suo comportamento problema e fare sembrare tutto normale come una sorta di improvvisazione o cambio di scena, senza dare all’occhio?
Semplice, attivare i “neuroni specchio”; se solo la sua insegnante o le altre avessero mai saputo o studiato o ricordato cosa sia questa tecnica comportamentista: “I neuroni specchio permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri. Quando osserviamo un nostro simile compiere un particolare gesto si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a compiere quella stessa azione.”
Ecco. Tutto qui. Bastava semplicemente che la sua docente/ terapista entrasse in scena, si mettesse accanto ad Emanuele , imitasse il suo comportamento e la classe tutta con lei e con lui. Emanuele in quel momento sarebbe stato un coreografo improvvisato, talentuoso, ideativo, creativo che aveva inventato una nuova scenografia al momento senza nulla di precostituito, in modo tale che nessuno avrebbe mai notato le sue difficoltà, il suo rifiuto e il suo isolamento.
Bastava poco. Bastavano impegno, ingegno, preparazione, problem solving, tecniche che si insegnano al corso abilitante TFA, quello che ambiscono i docenti di sostegno. Tecniche che sono alla base dell’approccio comportamentista del padre fondatore della psicologia stessa: John Broadus Watson che forse si sarà rivoltato nella tomba insieme ai massimi esponenti come Max Meyer, Hunter, Kuo, Lashley, Tolman, G. Mead, Piéron, Hull, Guthrie, Skinner, Spence, Kantor, Weiss, Bandura, Eysenck, Staats, N. che se potessero, si interrogherebbero sul motivo per il quale le docenti tutte, hanno creato inutili ansie ai compagni di classe perché impreparati a gestire Emanuele in quanto ignari del peer-to peer, altra tecnica che significa “aiuto tra i pari”, creato imbarazzo alle persone in sala e tristezza ai genitori del ragazzino.
Qualcuno sicuramente si giustificherà con la frase di rito : “ Va bene l’importante è insegnare a stare insieme e imparare il rispetto delle regole, perché gli attori, quando sono in scena, anche se non fanno niente sono a vista quindi i bambini sono tutti protagonisti, devono anche se ancora non è il loro turno, stare in piedi o seduti il più immobili possibile. È importante non prendersela perché lo spettacolo lo fa anche chi sta fermo o non fa niente, lo spettacolo è solidarietà fra attori…” certo va bene tutto. Tutto giusto e logico.
Ma se Emanuele fosse mio figlio? Se li sul quel palco, ci fosse stato mio figlio, l’Emanuele di turno? La scuola, i centri riabilitativi, tutto ciò che ruota intorno al contorto mondo autistico devono delle risposte urgenti, pertinenti e reali, ma per il momento le scuse sono d’obbligo. Ad Emanuele in primis….
Quando accadono queste cose, la delusione è talmente grande da far perdere per un attimo la speranza che un domani il mondo sia migliore. Leggere che un bambino, una creatura innocente, abbia potuto vivere una situazione di questo tipo genera tristezza ma anche tanta rabbia. Una famiglia fa tanto affinché il proprio figlio stia bene e poi accade questo. È brutto dirlo, ma a questo punto è meglio che stiano a casa i ragazzi che la scuola non è in grado di aiutare, altrimenti li rovina solo. Oggi, poi, ogni mattina ci svegliamo con nuovi insegnanti di sostegno, maestre…bah! Il tizio che fino a pochi giorni fa faceva il fruttivendolo, lo incontri e ti dice che ha fatto alcune cosine e ora è entrato a scuola. Mah…e, invece, la persona che sta studiando tutto lì scibile umano per dare il massimo è a casa. Ma certo, mi sembra proprio giusto. Poi sentiamo insegnanti che non sanno minimamente cosa siano i rinforzi, che non sanno gestire comportamenti problema adeguatamente e via dicendo.
La scuola, come anche la società intera, deve cambiare, altrimenti questo mondo apparirà sempre più piccolo, in quanto le persone più sensibili tenderanno a isolarsi completamente.
Non ho perso la speranza che un giorno il mondo sarà un pochino migliore, perché la speranza è sempre l’ultima a morire…perciò combattiAMO per i nostri ragazzi, devono vivere in un mondo bello.
Grazie, Dottoressa Canzano! I Suoi articoli sono sempre interessantissimi.
Grazie di cuore carissima. Come sempre scrivo l’inclusione si fa e non si dice
Porgere le scuse vero, ma il problema sussiste nella poco conoscenza di alcuni insegnanti, ecco perché ci vorrebbero dei docenti preparati in questa materia, altrimenti si va al collasso, e l’alunno autistico resterà sempre isolato.
Tematica molto importante è articolo degno di te.
Grazie Mariarosaria
Carissima Dott. Canzano ha scritto delle cose bellissime ma tristi perché vere: si sarebbe potuto, si avrebbe fatto, si potrebbe fare… ma la domanda è un’altra… se le docenti avessero voluto??
Purtroppo a volte non solo manca la volontà ma mancano le competenze e gli strumenti di preparazione e non tutti hanno la capacità di comprendere e di mettere in pratica le conoscenze, ammesso che le abbiano. Il mio abbraccio personale ad Emanuele e alla sua mamma da una mamma di un bambino autistico di otto anni…
Carissima Dott. Canzano ha scritto delle cose bellissime ma tristi perché vere: si sarebbe potuto, si avrebbe fatto, si potrebbe fare… ma la domanda è un’altra… se le docenti avessero voluto??
Purtroppo a volte non solo manca la volontà ma mancano le competenze e gli strumenti di preparazione e non tutti hanno la capacità di comprendere e di mettere in pratica le conoscenze, ammesso che le abbiano. Il mio braccio personale ad Emanuele e alla sua mamma da una mamma di un bambino autistico di otto anni…
Sinceramente non ci si può rendere conto di alcune situazioni se non si vivono e personalmente anche la mia nipotina alla scuola dell’infanzia ha vissuto una situazione analoga: è stata esclusa dallo spettacolo di fine anno perché autistica di livello tre. La cosa più grave è stata proprio che l’insegnante ha detto a mio fratello di non portare la bambina… ma che vergogna! Sono personalmente indignata.
Purtroppo si è ancora lontani dall’inclusione perché le docenti,ma anche altre operatrici,non vengono formate a dovere…Si deve combattere affinché questi bimbi non si sentano discriminati perché come sappiamo loro percepiscono tutto!
Leggo e mi chiedo come possa essere possibile una cosa del genere…. La scuola inclusiva? Utopia. Grazie dott per questo articolo che colpisce il cuore
Parliamo di corsi di perfezionamento… inclusività… e poi tra il dire e il fare … isolato ed escludiamo
Che dire … mi sembra facile dire si deve essere inclusivi … poi
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