di Mariantonietta Losanno
«Je me suis beaucoup expliqué en parlant des autres», ha raccontato Agnès Varda in relazione al suo Cinema, che parla di altri e per altri, senza mai consentire al suo tono di voce di sovrapporsi a quello di ognuno di loro. Prende la parola (a dimostrazione di quanto sia preponderante, nella sua filmografia, una dimensione soggettiva, legata alla scrittura di sé) per dare, poi, la parola a persone a cui – spesso – è stata negata o, semplicemente, si tratta di una parola “nascosta”, resa nota attraverso l’attento lavoro di “spigolatura”, lo stesso de Les glaneurs et la glaneuse. Dare la parola significa anche dare modo di ri-scriversi. La propria storia raccontata, ascoltata e riconosciuta senza essere più giudicata, può diventare, a un certo punto del “cammino”, il punto di partenza per un percorso di auto-osservazione, l’inizio di un processo che reclama cambiamento. Si tratta, cioè, di concedersi degli spazi di ascolto, di riflessione e di possibile (ri)attribuzione di significato della propria esistenza. L’approccio autobiografico consente di ri-appropriarsi della propria esistenza (indipendente dal passato) attraverso la capacità di narrarla: ci si ripercorre nel “tempo vissuto”, si attribuisce un possibile ordine o senso, per poter guardare al “nuovo”. Agnès Varda comprende il Potere che la narrazione di sé impone al soggetto, facendolo ritornare problematicamente su se stesso assumendosi sia come attore sia come problema; il narrare implica un dare ordine (qualunque esso sia) e fissare passaggi e traguardi. Nel narrarsi, quindi, ci si prende cura di se stessi e della propria storia.
Premesse, queste, necessarie per analizzare Black Panthers, documentario (disponibile sulla piattaforma Mubi) sulle proteste a Oakland nel 1968. L’emblema del movimento sostenuto dagli attivisti è una pantera, scelta perché è un animale nero («Black is honest and beautiful») e “magnifico” che non attacca ma si difende ferocemente. Si difende dagli aggressori, dai colonizzatori, dai razzisti. Combatte affinché si ottenga giustizia e la legge della giungla nera venga fatta dalle “pantere” piuttosto che dal “maiali”, così come vengono chiamati – più “correttamente” – i poliziotti. Agnès Varda adotta il suo consueto metodo: aderisce ai personaggi (reali o di finzione) e si pone al loro fianco, senza trasformare la messa in scena in un’operazione bellica. Lascia parlare, appunto. Gli attivisti hanno degli scopi ben precisi: vogliono libertà, lavoro, fine dello sfruttamento della comunità da parte dei bianchi, alloggi decenti atti ad ospitare esseri umani. E, ancora, un’educazione che insegni la vera natura della società americana decadente, la loro vera storia e il loro vero ruolo nella società contemporanea. Chiedono che tutti gli uomini neri siano esonerati dal servizio militare, che finisca la brutalità della polizia e gli omicidi. E, soprattutto, vogliono far uscire dal carcere uno dei loro leader, Huey Newton.
Tra le varie testimonianze ci sono quelle di donne che si pettinano “al naturale” per mostrare come sono realmente, che tornano al loro colore naturale per dimostrare consapevolezza del proprio aspetto, per sentirsi più fiere. La Varda combatte – senza togliere loro spazio di espressione – insieme a queste donne in quella che si presenta come una lotta per acquisire un corpo e uno spirito. In circa trenta minuti, la regista incoraggia il suo pubblico a scoprire la simbologia delle Black Panthers. Come in altre sue opere precedenti non si nasconde dietro la macchina da presa, ma se ne serve per esprimere il suo coinvolgimento politico. Come si potrebbe, d’altronde, conoscere la storia del razzismo di oggi senza partire da quello di ieri? Dalle loro parole, dai loro sforzi, dalla loro determinazione.