di Mariantonietta Losanno
Il potere del melodramma Almodóvar l’ha imparato (anche) da Douglas Sirk, e in Tacchi a spillo lo omaggia, addentrandosi in una riflessione sulla maternità. Riflessione che proseguirà, poi, fino all’ultimo Madres Paralelas, probabilmente il fulcro del suo Cinema, ma non il suo apice, in cui al confronto tra due personaggi femminili, si aggiunge – come sempre nella sua filmografia – l’elemento politico, il passato franchista della Spagna.
In Tacchi a spillo (nona prova del regista spagnolo, di nuovo in sala dal 15 giugno) ci sono due donne – Rebecca e sua madre – e diversi uomini (potenzialmente infiniti) che si confondono, assumono altre sembianze; si (tra)vestono, si rendono irriconoscibili, dissimulano la loro identità. Uomini del passato, altri appena conosciuti, poi dimenticati e ritrovati diversi. Tutto è il contrario di tutto, eppure non sembra motivo di disorientamento. Tutto si trasforma, nell’aspetto e nel contenuto. Almodóvar obbedisce alle sue bugie costruendo un intrigo dopo l’altro, compiacendosi dei propri ammiccamenti e dei propri travestimenti. Mostrandosi felice dei propri (quelli dei suoi personaggi, ma che sembra condividere) amori negligenti, pronti a manifestarsi in ogni dove. Nessun moralismo e nessun giudizio. La passione diventa il motore della vicenda e stabilisce anche le radici del Cinema di Almodóvar, che predilige l’esibizionismo, celebra il gusto e il piacere di donare a se stessi un abito, un cappello, un paio di scarpe o qualsiasi altra cosa volubile capace di comunicare uno stato d’animo nella sua ricercata bellezza. Tutto questo può sfociare – e infatti sfocia – in un comportamento eccessivo ma mai privo di significato.
Altro grande punto di riferimento è Ingmar Bergman, con i suoi diversi specchi. E, A proposito di queste…donne, il rimando più immediato è quello a Sinfonia d’autunno (film del 1978 realizzato in Norvegia), che rappresenta l’incontro tra Ingmar e Ingrid Bergman, che non recitava nei paesi scandinavi dal 1940. I personaggi – come quelli di Almodóvar – rappresentano dei docili strumenti (“sono come violoncelli”, per dirla alla Bergman), che si confrontano e si contrappongono. Ed è allo stesso modo che Tacchi a spillo si sviluppa, seguendo un dialogo a due interrotto qua e là da rapidi cambiamenti, da brevi riflessioni o da lamenti. Ascoltiamo parole, vediamo volti. Si può parlare – forse – anche di teatralità.
Per Almodóvar l’uomo ha tutto dentro di sé, colpa e innocenza. Esistono molte, infinite, realtà oltre a quelle che i suoi personaggi mettono in scena. A prima vista il torto starebbe da una parte e la ragione dall’altra: il pendolo oscilla tra madre e figlia. Ma non c’è necessità di fare processi. Inoltre, man mano che la narrazione procede si ha quasi l’impressione che le due donne tendano a confondersi in un’unica maschera, ritornando – ancora – a Bergman e a Persona. Cos’è, poi, tutta quest’angoscia di doversi distinguere?