L’ULTIMO MOROTEO

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–   di Vincenzo D’Anna*   –                                                 

Lello Menditto se n’è andato come suo costume di vita. In punta di piedi. Con quel suo passo felpato, cauto e sornione, che gli era congeniale come il tono della voce, flebile e suadente. L’ultimo dei politici democristiani dei tempi splendidi dello scudo crociato casertano, eminenza grigia, che rifuggiva ogni soverchia esposizione politica e personale, è stato un ragionatore instancabile e custode di molti episodi che hanno segnato la vita politica di Terra di Lavoro. Ancorché avanti nell’età, Menditto manifestava ancora un profondo e partecipe interesse per le cose politiche ed amministrative della sua terra, testimone di un’era ormai affidata al ricordo, seppure gravida di successi elettorali in una provincia, quella casertana, in cui la Democrazia Cristiana la faceva da padrona, come il partito più “bianco” d’Italia per la messe di consensi che sapeva raccogliere. Erano gli anni del massimo successo della “Balena Bianca”, che amministrava i principali enti economici e sociali, oltre a gran parte dei comuni ed all’amministrazione provinciale.  Dal dopoguerra in poi, la Dc aveva avuto in mano, per suffragio elettorale, quasi tutte le leve del potere, godendo di una classe politica qualificata che aveva saputo ben arginare il “napolicentrismo” e l’invadenza politica che ne derivava. Anzi, quel ceto politico primeggiava più di chiunque altro nelle percentuali di voti raccolti, di adesioni (leggi: tessere d’iscrizione) al partito e di deleghe congressuali, queste ultime rapportate, per statuto, ai voti ottenuti alle Politiche. Un consenso tanto largo e stabile che, in taluni collegi di quella provincia campana, le candidature erano riservate ai big nazionali. Insomma, spesso la dirigenza accampava il diritto di schierare personalità di spicco del mondo democristiano, così da garantire alle medesime una sicura elezione. Il partito con sede in Corso Trieste, era ben organizzato e collegato con le varie articolazioni interne (le note “correnti”), che si fronteggiavano all’interno dello schieramento. Gli organi della Dc casertana, eletti per il tramite  della celebrazione dei congressi sezionali e poi di quello provinciale, annoveravano tra i propri componenti uomini di cultura, di passione e di esperienza politica, oltre che dotati di un congruo consenso elettorale personale. Niente a che vedere, dunque, col marasma odierno, con i partiti somiglianti a ditte personalizzate, con a capo un leader ed uno stuolo di seguaci a lui legati. Forze politiche, quelle del Terzo Millennio, che potremmo definire “metafisiche”, che non hanno mai conosciuto il confronto e lo scontro su valori differenti, riferimenti storico-culturali e visioni socio- economiche contrastanti. Soggetti non scalabili per le posizioni di vertice nelle quali ogni promozione e designazione proviene dalla benevola cooptazione dell’intestatario della “ditta”. Niente dibatti, insomma. Zero congressi, nessuna selezione democratica per merito e consenso, se non quella dei più fedeli e dei più obbedienti. Non erano certo questi i movimenti nella Prima Repubblica, prima di degenerare con il finanziamento occulto e l’uso delle segreterie politiche come surrogato del collocamento, così da sfornare posti di lavoro semi-parassitari nei mille gangli della burocrazia statale. L’avvocato Menditto operava in quel partito. Un partito che rispondeva alle regole statutarie, al consenso elettorale, ai requisiti di onestà e di disinteresse personale, alla certezza di una fede non che non veniva mai abiurata. Vi operava al servizio di un credo politico che non è mai sfiorito e di un’autorevolezza generalmente riconosciuta. Lello era un fedelissimo di quella corrente che faceva riferimento ad Aldo Moro. Aveva compagni di strada di spessore politico e culturale come Elio Rosati, Vincenzo Mancini, Mattia e Renato Coppola, Antonio Frasca, Vincenzo Capone, Giuseppe Caliendo, Giacomino Barbato, Antonio Napoletano, Ciro Balbo ed altri ancora. Intimo dello statista pugliese, Menditto seppe muoversi politicamente nel solco ideale tracciato dallo storico leader della “Libertas”. Allo scioglimento della Democrazia cristiana aderì al Partito popolare italiano di Mino Martinazzoli e Mariotto Segni, negli anni Novanta del secolo scorso. Quel partito, propostosi come terzo polo tra il centrodestra Berlusconiano e la cosiddetta “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto col centrosinistra, pur raccogliendo circa il 18% dei consensi, fu scarsamente premiato dal sistema elettorale maggioritario (Mattarellum) finendo politicamente, dopo pochi mesi, con un lapidario messaggio fax, liquidato lapidariamente dall’avvocato bresciano Mino Martinazzoli. Menditto seguì così la sorte dei Cattolici democratici che poi confluiranno nella coalizione di centrosinistra dell’Ulivo e, in seguito, sotto l’egida del Pd. Insomma il suo è stato un percorso coerente, mai discostatosi dal tracciato che fu la corrente democristiana di Aldo Moro: bianca nel politico, rossa nel sociale. Addio Lello, ultimo Moroteo e gran signore della Politica.

*già parlamentare