– di Vincenzo D’Anna* –
“Nello Stato di diritto la morale risiede nella legge” affermava il filosofo tedesco Hegel. Ma occorre dire anche che non sempre quel che è lecito è anche morale. Diciamo che tutto dipende dalla volontà e dai principii ai quali il legislatore si ispira. Un esempio di scuola della divaricazione tra lecito e morale viene dalle norme sui pentiti e da quella consuetudine giuridica (fattasi legge) del concorso esterno in associazione malavitosa. Il combinato disposto di questi due “elementi” ha portato in carcere centinaia di persone, uscite poi indenni dai giudizi oppure dichiarate colpevoli per sentenze basate su teoremi mai provati dagli inquirenti. Insomma: vittime di dispositivi frutto dell’interessata delazione dei collaboratori di giustizia, gestiti direttamente dai pubblici ministeri ed utilizzati per sostenere l’accusa, fosse anche con dichiarazioni “de relato” (cioè per sentito dire da altri) mai riscontrate da un giudice terzo. Senza la legge sui pentiti, varata mezzo secolo fa nel pieno della emergenza terrorismo, e soprattutto, senza la norma giurisprudenziale mai tipizzata e definita, del concorso esterno, fior di galantuomini non sarebbero mai finiti alla sbarra, travolti dalla gogna delle illazioni e delle supposizioni il cui onere di prova viene sistematicamente ribaltato su di loro costretti spesso, a confutare e provare l’infondatezza delle delazioni dei pentiti, certamente camorristi e plurimamente omicidi, questi ultimi, allettati dalle promesse di sconti di pena, dissequestro dei beni e sostegno economico ai congiunti. Questa, purtroppo è storia nota ed immutata, retaggio degli anni bui della giustizia spettacolo, dell’arroganza delle toghe rese irresponsabili dalle garanzie costituzionali di cui sempre hanno goduto. Fino a quando si continuerà a tollerare che l’indipendenza della magistratura coincida anche con l’impunibilità degli errori e degli abusi dei giudici, il popolo italiano vivrà in uno stato di polizia alla mercé di una manica di delinquenti travestiti da pentiti. Tuttavia, è storia di queste ore, mancava all’evidenza dei grani del rosario, tragico e liberticida che tuttora vige nella generale indifferenza del cittadino comune (spesso trasformato in moralista senza cervello e senza limiti), un’ultima clamorosa novità: la sentenza “sartoriale”, ossia confezionata su misura, costruita non già su prove certe, ma neanche sulle dichiarazioni rese da decine di coimputati (e dagli stessi pentiti), bensì approntata con spezzoni di quelle stesse dichiarazioni (accuratamente tagliate e cucite), per comporre il giudizio di condanna nei confronti dell’ex ministro e più volte deputato di centrodestra Mario Landolfi. Nei suoi confronti c’era un solo accusatore: Giuseppe Valente, ex amministratore del consorzio di smaltimento dei rifiuti Eco 4. Landolfi, è bene precisarlo, rinunciando alla prescrizione (!!), si era difeso nel processo che lo vedeva accusato di corruzione per aver convinto un consigliere eletto con il centrodestra a sostenere un candidato sindaco (di quella stessa coalizione) di Mondragone, la sua città. Ebbene, occorre sapere che il suo accusatore, pentitosi al momento giusto, era stato escusso (interrogato) per ben 25 volte nei vari processi (Cosentino, Facchi e Andreozzi-Conte) in cui era stato sentito. Compreso quello di Landolfi, dove, per accordo tra le parti, erano confluiti anche i 25 verbali di cui prima. Che dire?, a quanto pare tante volte non bastavano. Nossignore: Valente andava riascoltato nuovamente affinché il magistrato potesse finalmente trovare la “sua” verità: quella, cioè, che gli sarebbe stata utile per farlo dichiarare attendibile e, di conseguenza, arrivare alla condanna di Landolfi (fregando, al tempo stesso, anche Cosentino). Ma, e qui sta il bello, quando il giudice riascolta Valente, il teste si contraddice tre volte in mezza pagina di verbale (“credo di non averlo detto a Landolfi, non escludo di averglielo detto, non ricordo di averglielo detto”). Eppure il giudice non si scoraggia: semplicemente omette di riferire questo brano nelle motivazioni e vi inserisce una dichiarazione resa dal teste sullo stesso argomento (l’assunzione di un parente di un consigliere comunale presso la Eco4 in una vicenda analoga a quella incriminata) proveniente dal processo Cosentino. Ed ecco che arriva “il taglia e cuci”, impressionante. Al punto 4 di pag. 67 delle motivazioni, scrive infatti il giudice: “Non è vero che Valente non informò il Landolfi della corruzione del consigliere, attraverso il posto di lavoro offerto in Eco4; si tratta anche in questo caso di una vicenda analoga a quella per cui si procede e il Valente non dice che non informò Landolfi, ma il suo ricordo sul punto è dubitativo, sebbene più orientato al positivo che al negativo (‘credo ne avessi parlato anche con Landolfi’)”. La frase riportata tra parentesi è clamorosamente “amputata”. Valente aveva infatti detto che “l’unica persona con cui aveva parlato di questa vicenda è l’on. Cosentino” (non imputato in questa vicenda) per poi aggiungere “credo ne avessi parlato anche con Landolfi”. Ed è esattamente così che il giudice riesce a condannare quest’ultimo (2 anni con esclusione dell’aggravante camorristica) e a incastrare Cosentino. E sì, perché per assolvere completamente l’ex ministro il giudice avrebbe dovuto dichiarare inattendibile Valente, che era anche uno degli accusatori di punta dell’ex-sottosegretario berlusconiano. Che dire, cari amici: la partita è grossa e l’ordine giudiziario evidentemente non poteva subire l’onta di una terza assoluzione per Cosentino, accusato – come Landolfi – dal Valente. Bisognava “stangare” l’ex deputato per rendere credibile il pentito che accusava sia lui sia l’ex leader regionale di Forza Italia. Et voilà! Il gioco è stato fatto. Serviva una sentenza su misura, figlia di un cruciverba compilato dal magistrato e trasfuso in un dispositivo di condanna, in un processo in cui l’unica fonte di accusa, il pentito Valente, è diventato attendibile ancorché egli stesso si fosse contraddetto tre volte!! Insomma, ricapitolando: dopo 25 interrogatori già disponibili, ove nulla era emerso a carico di Landolfi, ecco scaturire l’impellente bisogno di acquisirne ancora un altro per poterne poi ricavare una sintesi apodittica!! Perché? Semplice: perché senza quell’arbitrario “confezionamento”, Valente non sarebbe stato dichiarato credibile come fonte di accusa ed il processo (compreso quello contro Cosentino), sarebbe finito in fumo. Sissignore: l’esito di dieci anni di indagini e di fango versato su due galantuomini, senza quella fantasiosa sentenza, sarebbe stato Landolfi scagionato e Cosentino libero. Le sentenze sartoriali si rispettano? Una vergogna, un artifizio camuffato, li si rispetta? Un collage necessario e funzionale ad un’autotutela artificiosa per l’ordine giudiziario che, altrimenti, avrebbe rischiato una sonora bocciatura! Ecco di cosa stiamo parlando. E la chiamano giustizia…