“A DAY IN A LIFE”, LARRY CLARK: GIOVENTÙ CHE BRUCIA, TRA HARMONY KORINE E GUS VAN SANT

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di Mariantonietta Losanno 

Come diventare grandi. Larry Clark (ce) lo racconta da tempo,  oltre le regole e le convenzioni; evitando di nascondere o nascondersi, senza nessuna censura, nonostante si tratti di brevi sketch di appena quindici minuti. Tra i fondatori del cinema indipendente americano e fotografo rivoluzionario, Clark l’adolescenza la descrive (sempre) così: gli skateboard, la sessualità, le droghe. Non c’è, quindi, necessità di una sinossi vera e propria. A Day in a Life è un piccolo ritratto di una gioventù bruciata (immediato il rimando a una Vita in fumo di Harmony Korine), decadente, totalmente imperfetta. Attratta da vizi e poco incline ad una maturazione. E, ancora, affascinata da quell’estetica del brutto che tanto ha ispirato Gus Van Sant e Todd Solondz. Brutto, appunto, che sta anche a voler dire in declino – nonostante si tratti di adolescenti – e a suggerire come l’innocenza venga minacciata da “piccoli mostri”, che si presentano come difetti o imperfezioni fisiche, o come abiezioni morali. Si adeguano a questa “bassezza” anche i modelli di riferimento, i genitori, che criticano l’eccessivo trucco (che diventa un “problema”) e si augurano che i figli non diventino mai “come loro”. Mai così falliti, quindi. 

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Il “brutto” e il “cattivo” hanno il diritto di avere il loro posto. Hanno diritto di essere celebrati, attraverso uno sguardo che esalta tutto quello che è anti-idilliaco. Un atteggiamento, questo, che ci riporta (ancora) a Gus Van Sant, che gli adolescenti li ha sempre fatti parlare. In Paranoid Park, ad esempio, è Alex a sviluppare il racconto sotto forma di diario-confessione. Lo sguardo alterato del regista condensa l’atmosfera alienante e la perdizione degli adolescenti in uno spazio in cui, proprio per la sua essenza, è possibile indagare anche quelle emozioni da cui si vorrebbe fuggire. Alex fugge, ma è Paranoid Park a “rincorrerlo”, a riportarlo nella (sua) realtà. Come Gus Van Sant, Larry Clark non è alla ricerca di redenzione; il suo è un Cinema “dannato”, ripetitivo, senza approdo o lieto fine. Un Cinema composto da frammenti da ricostruire, che dissimula, ma non fugge. Non scappa di fronte alla sofferenza o alla solitudine, indaga e va a fondo. Un cinema di “realismo”, che mantiene una cifra autoriale immediatamente riconoscibile e che continua ad approfondire, attraverso linguaggi e modalità diverse, temi, figure e ossessioni. 

In A Day in a Life (disponibile sulla piattaforma Mubi), tutti questi concetti, certamente, cedono ad un’approssimazione. Sono appena accennati. Nel suo breve tempo, però, l’opera si presenta come viscerale e metafisica, cupa e disperata. L’universo è crudo e asettico, gli sguardi sono persi e disillusi. Il meglio – per Clark – è già arrivato, su questo non ci piove. Ma che un cortometraggio possa riassumere – non sottrarre – la potenza della sua filmografia, e non presentarsi come una manifestazione indifferente, è possibile. 

Inclemente e mai consolatorio, Clark mantiene il suo spazio sotto il segno della paura e dell’abbandono. «C’è sempre qualcosa da dire sugli adolescenti. È proprio come decidiamo di vivere proprio quell’età che determina come saremo da adulti.  Se ha visto nel film, a un certo punto, viene rivelato il passato dei protagonisti e solo allora si può iniziare a capire perché si comportano così. Di solito nei film questo ciò succede. Io cerco di analizzare tale aspetto», dice il regista su quello che è rimasto da raccontare. C’è ancora tanto da aggiungere sui freaks grotteschi, sulle loro psicologie borderline e sui loro eccessi. Sullo sfondo di un’America sempre periferica e marginale.