di Mariantonietta Losanno
La famiglia di Angeliki si riunisce per festeggiare il suo undicesimo compleanno. Ci sono le candeline, viene cantata la classica canzoncina, accompagnata da un augurio: «Che tu possa vivere più a lungo possibile». Sono tutti composti, a loro agio nel ruolo che ricoprono, impossibilitati – per decoro – a discostarsene. Viene annunciata una gravidanza, a cui, però, non consegue la classica (ancora) ilarità, né le congratulazioni che si aspetterebbe di ricevere. È la stessa festeggiata a distruggere (e aggredire) quel ritratto familiare, gettandosi dalla finestra. A quali mezzi faranno ricorso i suoi parenti per affrontare l’accaduto? Ci sono, innanzitutto, le giustificazioni fornite a chi di dovere: «Era il suo compleanno ed era felice. E la ringhiera era sicura», dice il “padre”. Quest’ultimo, in realtà, non è chiaro se sia – e di chi sia – padre. Gestisce, però, la casa e i suoi componenti. È quello che dirige le cene e pretende che avvengano con tutti i presenti al loro posto. A scuola di Angeliki iniziano le insinuazioni; si diffondono, infatti, rumors sulle sue (presunte) relazioni con ragazzi più grandi (uno di loro si vanta di essere il “motivo” di quel gesto), infangando la sua immagine. Più che cercare un colpevole, si stigmatizza una vittima, tacciandola di qualsivoglia peccato a sfondo sessuale.
Quello che – più di tutto – fa sì che la violenza si manifesti in modo tangibile è l’immobilità. I corpi in vita ma immobili, fissi, privi di espressioni, fanno più paura di tutto. Sono gli stessi corpi che si dispongono – rispettando il loro posto – ad una tavolata di famiglia, che sistemano la stanza di una ragazzina morta suicida e si disfano dei suoi vestiti. Sono, ancora, i corpi addestrati e docili (e, quindi, manipolabili) che il “padre” costruisce e di cui si serve, come gli fa più comodo. La violenza è lì, nella stasi. A parte l’indugiare sul corpo di Angeliki, non ci si sofferma su altri dettagli macabri (quelli che, normalmente, suscitano morbosità e costruiscono un’iconografia dell’orrore); ci si sofferma sulla paralisi di chi – inerme – aspetta che arrivi il proprio turno per andare incontro alla stessa fine. E, proprio come corpi disciplinati, aspettano rispettando l’ordine che il “padre” ha stabilito. Non ribellandosi alle regole o ai criteri stabiliti (e all’età minima che si deve avere per rendersi “utilizzabili”); sono impercettibili, infatti, i tentativi di insubordinazione per cambiare le “tappe” del piano.
«In questa casa non abbiamo niente da nascondere», dice il “padre”, prima di togliere la porta ad una delle stanze delle sue (presunte) figlie. Non c’è niente da nascondere (che ci riporta al titolo tradotto in italiano di Caché di Michael Haneke, riferimento più che consono), perché è tutto evidente, nonostante si nasconda dietro una facciata inattaccabile di rettitudine. Avranas aderisce alla violenza, facendosene “maestro”. È un conoscitore abile, infatti, di quei meccanismi (messi in atto anche da – oltre che da Haneke – Yorgos Lanthimos e Athina Rachel Tsangari) di crudeltà indicibile che si associano a contesti dove – per natura – la crudeltà non esiste. Distrugge gli spazi protetti, aggredendo ogni interstizio, non lasciando scampo. Di tutto questo dolore, inevitabilmente, ci si stanca. Delle porte chiuse, dell’odore di sangue, dei sorrisi di disperazione.
Cosa resta, allora, di un Cinema che – come le porte, appunto – si chiude su se stesso, rendendo il Male così tanto ordinario? Scendendo nei seminterrati – come quelli di Ulrich Seidl e del suo Im Keller – emergono tutte le abitudini e le rappresentazioni classiche dell’orrore. Questi rituali sono tutti veri, siamo sicuri che serva prenderne consapevolezza?