“ATTENBERG”, ATHINA RACHEL TSANGARI: LINGUE CHE DISPUTANO IN UN CAMPO DI BATTAGLIA 

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di Mariantonietta Losanno 

Corpo a corpo con la lingua di Athina Rachel Tsangari. Una lingua spesso incomprensibile, che sembra voler denunciare uno stato di assenza e di sottrazione – se non di liberazione – da quello che ci dovrebbe distinguere dagli animali, e invece ci riduce simili a loro. Una lingua che non riesce ad “equilibrarsi” con nessun’altra – né a controllare la respirazione – e che finisce per suscitare repulsione. La scena che apre Attenberg, presentato in concorso alla 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, chiarisce apertamente gli intenti, mostrando le difficoltà di interazione e contatto tra due lingue. Queste, possono essere sia intese come due linguaggi differenti che cercano di attingere ad un medesimo campo di esperienza (codice comunicativo su cui si sofferma il modello di Schramm, che integra i precedenti modelli matematici della comunicazione), che come lingue che cercano di “incastrarsi” – più che altro contorcendosi – per procurarsi piacere (?). Un bacio – o quello che arbitrariamente definiamo un bacio – diventa facilmente uno sputo, poi un impulso a “trasformarsi” in animali, ad aggredire e a difendere come tali. 

È – senz’altro – un Cinema che vive e crea disagio quello di Athina Rachel Tsangari, concepito per insinuare un senso di colpa e alimentarlo minuto dopo minuto. Le azioni vengono ripetute (in modo da accrescere la sensazione di soggezione),  così come le parole, facendo uso di tutta una serie di aggettivi o sinonimi che – anch’essi – aumentano il rifiuto. Desiderio e disgusto si alternano costantemente, come a voler sottolineare la volontà di chiedersi – invitando anche chi assiste a farlo – quale limite esiste e fino a che punto possiamo coinvolgere le vite di altri nelle nostre immaginazioni. La regista, al suo secondo lungometraggio, quel limite lo oltrepassa più volte e si assume – di fronte allo spettatore – le responsabilità delle scelte che ha fatto in nome di uno scopo superiore alla sua stessa vita: l’arte. La regista (produttrice – non a caso – di alcune pellicole di Yorgos Lanthimos) rappresenta, attraverso il suo cinema, le conseguenze delle sue stesse immaginazioni. Dimostra, così, di non sottrarsi mai ad una scelta assoluta e totalizzante e di mettersi costantemente alla prova, per comprendere fino a che punto è in grado di sopportare il fastidio verso un’immagine. Questa disputa tra lingue diverse – o una sola? – ricorda la scrittura di Philip Roth, espressione di guerra o auto-tortura. «Ho scritto per vedere se ne ero capace», ha dichiarato lo scrittore in un’intervista con Livia Manera, pubblicata su “La Lettura” nel settembre 2017. Come se, quindi, la scrittura fosse un mezzo per sfidarsi e scoprirsi fragili o inconsapevoli di (con)fondere vita e arte. 

D6A63547 E8D8 46BE 8204 698006EAE2EC 300x165 “ATTENBERG”, ATHINA RACHEL TSANGARI: LINGUE CHE DISPUTANO IN UN CAMPO DI BATTAGLIA Per Athina Rachel Tsangari il Cinema è un’ossessione, un destino, una condanna, una necessità, un diritto. Un modo per indagare la morte, trattandola come una pratica – tra le tante – da sbrigare. Perché, come ha scritto Bernard Malamud in Meglio vivi che morti: «Il lutto è un brutto affare, sentenziò Cesare. Se la gente lo sapesse, si morirebbe di meno». Per indagare, poi, la sessualità nelle sue perversioni, senza reprimere nulla, neppure i pensieri più inconfessabili, rifacendosi – certamente – al Cinema di Lanthimos (tra le varie citazioni, quella più immediata, è sicuramente quella a Dogtooth, per la presenza di una sorta di “guida” che impartisce lezioni di educazione sessuale), o a quello di Haneke. Le parole assumono un altro significato, vengono alterate, confuse, ma anche sottratte. Quello che normalmente definiamo “tabù”, ad esempio, diventa – “banalmente” – il modo per esprimere il rapporto incestuoso tra un padre e una figlia. 

Viene da chiedersi, di fronte ad un tale disagio, quanto si possa giustificare la supponenza. Quanto, cioè, la si possa ricondurre ad una consapevolezza di sé o ad un desiderio sadico di appropriarsi del tempo altrui. Che poi, fare da cavie, ad un certo punto, non stanca? A questo proposito, il poeta Valerio Magrelli, in un’intervista del 2014 per la rivista “Micromega”, in anticipo sul corposo volume Le cavie, che riunisce e ordina sei raccolte poetiche, dice: «Ho scritto una poesia in cui paragono le poesie alle cavie, ispirato da una frase molto bella di Isabelle Stengers. La grande epistemologa rifletteva sul fatto che le cavie, in biologia, sono molto diverse dagli oggetti degli esperimenti in fisica. Diceva sostanzialmente che Galileo non si affezionò di certo alla palla di piombo che gli serviva per dimostrare la rotazione della terra. Uno scienziato oggi non torna a casa col Bosone che studia, mentre uno zoologo sviluppa dell’affetto per la scimmia con cui lavora. Ecco, il poeta, nei riguardi delle poesie che elabora, è un po’ come uno zoologo. Ogni poesia è una cavia, ma una cavia animale e animata». Attenberg ci rende tutti della cavie, facilmente manipolabili. Ci riduce al rango di bestie, capaci solo di sputare, non di interagire. La lingua di Athina Rachel Tsangari, in fondo, è per pochi.