di Mariantonietta Losanno
Chi trova il tesoro diventa un re. Nemmeno un principe, direttamente re. Bisogna solo riuscire ad individuare la strada da seguire, lasciandosi guidare da un granchio, che si presenta come una sorta di bussola.
Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppi (entrambi classe 1986) esordiscono alla regia e sceneggiatura di Re Granchio. La pellicola – presentata nella sezione Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2021 – è il resoconto di un lento peregrinare; Luciano, figlio del medico locale di un borgo della Tuscia tardo ottocentesca, ama una contadina promessa ad un principe ed è convinto che la ricerca dell’oro potrà cambiare la sua vita. La sua esplorazione viene raccontata – ai giorni nostri – da alcuni vecchi cacciatori, che ne tratteggiano anche la personalità complessa, la dedizione all’alcool e le regole di una comunità che lo ha reso – per certi versi – un reietto. L’atmosfera fiabesca c’è, il linguaggio tipico di un’epopea (basti pensare al cognome di uno dei due registi, che già di per sé sembra leggendario) anche, così come i personaggi bizzarri e il tesoro da trovare che diventa il motore che muove le fila del racconto. Più che il tesoro in sé, l’elemento essenziale è il Tempo. «Il tempo passa e io nemmeno me ne accorgo. Sono sempre stata qua», dice Emma (Maria Alexandra Lungu, che abbiamo già visto ne Le meraviglie di Alice Rohrwacher); «Hai mai pensato di andartene via?», le viene chiesto. Il tesoro diventa l’occasione (o l’illusione?) per andare via, per smettere di accontentarsi di quello che si può fare, puntando – e guardando – in alto. La ricerca dell’oro diventa, allora, una speranza; e se (in)seguire il granchio è l’unico modo per arrivare alla meta, si fa tutto quello che è necessario. «Nothing gold stay», cioè: «Niente che sia d’oro resta». Così recita una poesia di Robert Frost, che si interroga sulla bellezza, ma anche sulla caducità della vita. Sulle immagini passeggere, destinate a svanire in fretta; sulla natura come dono delicato che non dura, e sull’età d’oro che non può essere eterna. Quell’illusione, però, può essere tanto forte da spingere l’uomo a perdersi, ostinato nell’idea di afferrarla.
Sono proprio i cacciatori a dirlo a gran voce: «La gente racconta quello che sa in dieci parole. La narrazione viene, poi, tramandata in quindici e, alla fine, è tutto un po’ vero e un po’ falso. Ed è difficile distinguere le due cose». È così che Re Granchio (disponibile su Mubi) si presenta. Una sorta di ibrido: un documentario e un racconto di finzione. O, anche, un sogno, che aiuta a non sentirsi vuoti, ad immaginare di poter «saltare i mari e andare lontano». La pellicola, rappresentando un’impresa eroica, rimanda – inevitabilmente – alle gesta di Herzog e al suo Cobra Verde. Sarebbe troppo audace, forse, il paragone con la folle impresa di Fitzcarraldo. Ci sono, poi, riferimenti – più o meno espliciti – a Jauja (2014), opera di pura contemplazione di Lisandro Alonso; e, ancora, a La leggenda del santo bevitore (1988) di Ermanno Olmi.
I due registi tracciano una strada definita. Le loro fantasiose dimensioni spazio-temporali ci riportano al realismo magico di Borges, ad una concezione della vita che non è per forza finzione ma re-interpretazione. C’è tanto materiale su cui interrogarsi.