“IL SOL DELL’AVVENIRE”: DALLO SPAZIO DELL’AUTARCHIA AL TEMPO DELLA SACHER

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di Mariantonietta Losanno 

Caro Nanni, ci risiamo. O meglio, caro Giovanni

La poetica di Nanni Moretti ruota spesso intorno all’esigenza, avvertita violentemente da alcuni personaggi dei suoi film, di trovare una risposta concreta a una realtà circostante che conduce alla paralisi dei rapporti umani. Per rispondere a una mancanza, a un bisogno, alla paura, questi personaggi ricorrono volentieri ad attività di simulazione, piccole messe in scena, rudimentali fort/da (che Freud ha descritto nel suo saggio Al di là del principio del piacere) nei quali cercano conforto. Così il figlioletto Michele in Io sono un autarchico, che, giocando con un teatrino di burattini, “doppia” il patetico tentativo degli adulti impegnati a comunicare con il corpo sociale attraverso lo spettacolo in un piccolo teatro alternativo; oppure Olga, la ragazza schizofrenica di Ecce Bombo, davanti alla quale non a caso finisce il protagonista Michele, che ha – per una volta – rinunciato all’ennesima serata inutili con gli amici trovando nello sguardo della ragazza lo specchio stesso della sua sofferenza. Ancora il regista Apicella in Sogni d’oro, che rimuove continuamente la realizzazione di una scena, all’interno di un suo film sulla figura di Freud, concentrata proprio sull’episodio del fort/da. Oltre a tutto ciò, quest’ultimo è anche una sorta di grado zero dell’autarchia, la sua messa in evidenza più elementare ed anche efficace, il trionfo dell’onnipotenza del bimbo che può, senza l’aiuto di nessuno, raggiungere i suoi traguardi. Ogni tot di anni (Nanni, anzi, Giovanni – come preferisce essere chiamato in questa nuova veste – dice ogni cinque anni) si ripresenta l’occasione per sondare soluzioni alternative, lontane dalla strada “classica” (?) del cinema. Il successo di Ecce Bombo, ad esempio, avrebbe dovuto incoraggiare a “battere il ferro finché è caldo”, a sfruttare il momento per dare inizio a un Bombo parte seconda. Invece passano tre anni, durante i quali compaiono meno interviste e si registra l’affievolirsi del dibattito sui giovani allo sbando. Da Tre piani, però, sono solo due. 

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Che cos’è – prima di tutto – Il sol dell’avvenire? Un sogno, una confessione, un’accettazione? Sicuramente un’opportunità per ribadire il fascino indiscreto dell’intolleranza, mutata – necessariamente – con il passare del tempo. Giovanni (dopo tutte le volte in cui lo sentiamo chiamare così poi ci si abitua) ce l’ha – ancora – con questa società dello spettacolo nella quale tutti siamo coinvolti quotidianamente, in cui tutto fa spettacolo. E allora, perché non dovrebbero farlo anche le sue nevrosi? Sicuramente nevrosi diverse, più “mature”, lenite anche dal ricorso a psicofarmaci che Giovanni ammette – serenamente – di prendere da più di un decennio. Ne Il Sol dell’avvenire si va alla ricerca (tutti insieme, questo è essenziale) del rito perduto, attraverso una serie di espedienti che possano aiutare ad “invocarlo”. Un sopralluogo in monopattino (che non si dica che Giovanni non si sia “modernizzato”) perché vuole mantenere la tradizione di girare almeno una scena nel quartiere Mazzini, una rievocazione attraverso canzoni (sia vecchie che nuove) che ci riportano a “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli in Bianca e che (ci) ricordano che “Sono solo parole” – come canta Noemi – non è poi così vero, perché sappiamo (Giovanni ce lo ha urlato) quanto le parole siano importanti. Poi c’è lo sport, che ha da sempre un posto di rilievo nei suoi film: pallanuoto (è arrivato anche in Serie A con la Lazio a diciassette anni), calcio (gli piace palleggiare liberamente, ovunque si trovi), basket, tennis. E c’è l’intento di voler fare un film al Cinema, con il Cinema e per il Cinema. Che tenga conto del pubblico, che rifiuti di rivolgersi a Netflix perché non ce n’è bisogno e non è l’unico modo di salvare il film. Che citi altro Cinema: Lola di Jacques Demy, Breve film sull’uccidere di Kieślowski (e i suoi sette minuti che allontanano da una crudeltà che non è mai intrattenimento), 8 ½ di Fellini, Anthony Hopkins in The Father, Apocalypse Now citato (addirittura) da Renzo Piano. Che richieda il soccorso di altro Cinema, come quando Giovanni telefona a Scorsese (peccato che risponda la segreteria!) per farsi spiegare come il suo modo di rappresentare la violenza sia cambiato da Taxi Driver ad oggi, o che richiami la poetica di Cassavetes, per stabilire contatto e distanza. 

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Un rito è un rito, e deve essere sempre lo stesso, altrimenti va tutto male. Nanni (ce lo concediamo, in questo caso, per stabilire un’atmosfera più intima) ci coinvolge nella costruzione del suo film, che di base prende forma non assumendone mai una chiara. Il sol dell’avvenire è un film sul 1956, sul comunismo (che non è solo un modo di dire), sulla rivoluzione ungherese antisovietica. C’è, quindi, un film nel film, nonostante non ci sia un film reale. Nanni si preoccupa: “È tutto diverso, il mio film andrà male”. Poi nascono i dubbi sul finale, risolti senza drammi (più o meno), ricorrendo a Calvino e a Pavese. 

Il sol dell’avvenire è un’occasione per ripercorrere il Cinema di Moretti: dallo spazio dell’autarchia al tempo della Sacher. Si sbuffa (insieme a Margherita Buy), si canta, si ricorda e si rievoca. Nanni si infastidisce (non tollera neppure dei sabot), si arrabbia, poi si diverte, dà persino i numeri, si lascia andare. Gli spettatori, invece, sono preda del suo incantesimo, camminano su una corda tesa, come dei trapezisti. Non serve un momento “what a fuck”, Nanni non ne ha mai avuto bisogno. Restano irrisolti dei “se”, ma chi dice che la storia non si possa fare anche con i “se”?