Raccontare o meglio scrivere sulla disabilità non è assolutamente semplice e soprattutto risulta ancora più difficile perché questa condizione, la vive ogni singolo giorno dell’anno. Parlare e raccontare della disabilità, in passato, faceva molto leva sul limite, sulle problematiche, l’accento veniva posto sulle tematiche sanitarie e l’essere umano non era al centro.
La parola disabilità, disability, ossia dis- abilitare, è “qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano”. Ora questa situazione è molto cambiata, il viaggio compiuto è stato notevole, si prospetta da anni un importante cambiamento proprio perché la società attuale è più aperta: gli attivisti stimolano a compiere un passo avanti nelle varie forme di disabilità ed è questione di linguaggio, di tempi, soggetti di discussione, perché la società diventi sempre più attenta, fertile e accogliente. Le parole, dunque, hanno il loro peso, e termini come “handicap” hanno assunto nel tempo un’accezione di offesa pertanto è stata sostituita con la corretta dicitura è “persona con disabilità”. Con tale asserzione si precisa che non è un termine categorizzante della persona in quanto non è un accessorio, ma suggerisce una sfumatura che va a rappresentarla nella sua totalità. “Io prima di tutto sono Marco con una professionalità, un’ampia esperienza da giornalista. Sono anche un artista e amo cantare. Sono un’attivista che siede in carrozzina. La disabilità contribuisce a descrivermi ma non mi qualifica.”
Bisogna capire come le persone, con le loro diversità possono comprendere anche la disabilità che sono una possibilità e posseggono strumenti e capacità per diventare una risorsa, possono occupare qualsiasi posto di lavoro in relazione ai loro strumenti. Non sono da mettere da parte, devono essere invece attivi e partecipi, per portare miglioramento a tutta la società. L’inclusione si fa, si pratica e non si dice, parola chiave a cui si affiancano sono comunicazione, informazione, trasparenza. Se ci chiedessimo come vogliono essere considerati e rappresentati, la risposta è semplice: semplicemente come delle persone, che hanno valore civile, comunicativo, sociale. Non sono e non devono essere presi per supereroi o modelli di coraggio, ma essere tenuti in massima considerazione per ciò che divulgano, per ciò che sono nella loro totalità, i temi che approfondiscono e per le loro modalità di comunicazione. I disturbi mentali sono ancora visti con sospetto e non sono considerati come le altre malattie. I pregiudizi sono ancora forti e presenti. I retaggi storici del vecchio manicomio, della pericolosità sociale e della difficoltà alla cura sono ancora vivi. La disinformazione, o peggio la cattiva informazione contribuisce a mettere in risalto l’aggressività del paziente psichiatrico, dimenticando che il comportamento aggressivo è presente sia nel sano che nel malato di mente. Lo “stigma” (che significa contaminazione, dall’antica ÛÙ›ÁÌ· greco) è un segno che distingue negativamente una persona: è come una difficoltà aggiuntiva per lui / lei che colpisce profondamente la vita sociale dei pazienti e delle loro famiglie. Lo stigma per la malattia mentale, è un marchio sociale indelebile che personalizza il malato psichico e si proietta anche sul gruppo socio-famigliare di appartenenza. Esso è ancora oggi presente ed è uno dei principali ostacoli ai programmi di terapia e di assistenza dei pazienti psichiatrici. I malati mentali continuano a rimanere discriminati ed essere fonte di pregiudizi, perché delle malattie mentali e delle sofferenze psichiche ancora ci si vergogna. Vincere il disagio con la conoscenza è l’obiettivo che si dovrebbe raggiungere. I pazienti psichiatrici spesso soffrono per un duplice motivo, il primo causato direttamente dalla loro malattia e il secondo correlato allo stigma sociale. La cura è fondamentale e più che altro la presa in cura è indispensabile per le persone affette da disturbi psichiatrici. La parola “caregiver” ossia “colui che si prende cura” identifica tutti coloro che prestano aiuto e supporto a familiari disabili bisognosi di assistenza continua o non autosufficienti nel compimento degli atti della vita quotidiana. I doveri dei caregiver comportano un considerevole dispendio di energie e tempo, per questo motivo la normativa, in particolare in materia di rapporti di lavoro, ha riconosciuto questo impegno prevedendo appositi permessi retribuiti o congedi, oltre a specifiche limitazioni in tema di modifica della sede lavorativa. La presa in cura del soggetto disabile è totale e se a farsene cura sono solo i genitori, il carico è notevole.
Per quello che concerne gli aspetti legislativi, la legge più importante che si occupa dei disabili è: “la legge 5 febbraio 1992 n. 104”, chiamata anche: “legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate” (perché attua i principi, fissati dall’ONU.) La legge 67 del 2006 è una legge di civiltà: sancisce infatti il diritto di chi vive una condizione di disabilità a non essere discriminato e prevede, altresì, che il Tribunale competente per territorio possa ordinare la cessazione di un atto o di un comportamento che lo discrimina. È fondamentale l’individuazione di ogni forma di discriminazione, che si ha quando una prassi, un provvedimento involontario o un comportamento in apparenza neutro mettono una persona disabile in una posizione di svantaggio rispetto agli altri. Con l’importante riferimento all’art. 3 della Costituzione, l’art.1 della normativa in esame intende garantire la “piena attuazione” della Legge 104/1992, al cui articolo 3 viene definito disabile “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.
La legge distingue tra discriminazione diretta ed indiretta: si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga. Si ha invece discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono un soggetto con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto alle altre persone.
Sono, altresì, considerati come discriminazioni le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona portatrice di handicap, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti. Pertanto il disabile che ritiene di avere subito un atto discriminatorio sia dal privato che dalla pubblica amministrazione, può depositare il ricorso, anche personalmente, nella cancelleria del Tribunale civile. Per quanto riguarda la rappresentanza processuale dei soggetti incapaci, valgono le regole comuni. Saranno legittimati i genitori dei disabili minorenni, i tutori e i curatori degli incapaci totali o parziali, nonché l’amministratore di sostegno, previa autorizzazione del Giudice Tutelare. Tali soggetti legittimati, in base alla previsione dell’art. 4 della Legge 67, possono, con atto pubblico o scrittura privata autenticata, delegare enti preposti e riconosciuti ad agire in loro vece.
C’è da rilevare che tale normativa è ed è stata fondamentale anche per la tutela del diritto allo studio degli alunni portatori di handicap contro eventuali discriminazioni.
I doveri dei caregiver comportano un considerevole dispendio di energie e tempo infatti abbiamo una vita limitata e sofferta. Però come dice lei dottoressa, bisogna essere fiduciosi e affidarsi alle istituzioni per fare squadra.
Grazie per questo importante articolo.
I pazienti psichiatrici spesso soffrono per un duplice motivo, il primo causato direttamente dalla loro malattia e il secondo correlato allo stigma sociale…qunat’è vera questa frase
Altro che discriminazione che sia diretta oppure indiretta, altro che tenerli fuori dai ranghi di una società lavorativa. Queste persone bisogna tenerle strette e farle sentire capaci di intendere ad occupare qualsiasi attività lavorativa, perché nonostante la loro disabilità, sono tanto intelligenti e possono coesistere con un individuo comune all’interno di un ramo aziendale.
Grazie per questa informazione che spero in tanti riescano a comprendere.
Grandee messaggio informativo … grazie di cuore ❤️
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